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Oms: in Italia l’acqua del rubinetto è sempre più sicura


Lo conferma l’edizione italiana del Manuale del Piano di Sicurezza per l’Acqua, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Negli ultimi quattro anni oltre 7 milioni di italiani sono tornati a bere l’acqua corrente e attualmente il 74% dei cittadini dichiara di dissetarsi alla stessa fonte.

04 OTT - L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) si è prefissata lo scopo di raggiungere il “Millennium Development Goal” sull’acqua potabile: fare in modo che entro il 2015 più del 90% della popolazione globale beva da sorgenti sicure. E anche se l’obiettivo sembra ancora molto lontano, in base alla lentezza del trend registrato negli ultimi anni, in Italia i cambiamenti sono già visibili: negli ultimi quattro anni oltre 7 milioni di italiani sono tornati a bere l’acqua corrente e attualmente il 74% dei cittadini dichiara di dissetarsi alla stessa fonte.
Purtroppo, però, anche in Italia non tutti possono compiere questa scelta: il 15% del Paese non ha ancora fognature e il 30% non ha depuratori. Per sanare la situazione servirebbero 60 miliardi di euro in 30 anni.

Questi i principali dati illustrati a Milano in occasione della presentazione del vademecum dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salubrità dell’acqua potabile. Si tratta del Manuale del Piano di Sicurezza per l’Acqua, edizione italiana del Water safety plan (Wsp), redatta a cura del Centro di Ricerche in Bioclimatologia Medica, Biotecnologie, Medicine Naturali e Talassoterapia (CRBBMN) dell’Università degli Studi di Milano. Il Manuale si pone come guida pratica nell’applicazione e nello sviluppo del Wsp, rivolgendosi in particolar modo alle forniture di acqua organizzate, gestite da società di acquedotti o enti simili. In breve il suo scopo è assicurare in modo continuativo la sicurezza e l’accettabilità di una fornitura acquedottistica.
    
I piani di sicurezza in Europa
La direttiva 98/83 prescrive l’obbligo dei controlli sia da parte dei gestori dei servizi idrici, che arrivano fino alla porta di casa, sia da parte delle autorità sanitarie, che dovrebbero lavorare invece all’interno dei condomini, in tutti gli stati membri dell’Unione Europea. In Italia è stata recepita dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2001, n. 31. Tale legislazione deve essere revisionata ogni cinque anni. Grazie all’iniziativa di Eureau, Federazione europea delle associazioni nazionali delle aziende di servizi idrici (in Italia vi fa parte Federutility), si sta studiando l’opportunità di inserire l’obbligo dei Water safety plan nella normativa europea. Il controllo diventerebbe così “integrato”, risultando ancora più efficace: non solo, cioè, a posteriori, dopo che l’acqua è stata immessa nelle tubazioni, ma anche preventivo. Un simile approccio è stato già adottato, in Italia, a Torino, in occasione delle Olimpiadi invernali, per prevenire possibili rischi idrogeologici o perfino attacchi terroristici. Dopo l’11 settembre, infatti, Federutility ha lavorato con l’Istituto superiore di sanità per prevenire i rischi di contaminazioni chimico-batteriologiche. Ma potrebbe risultare particolarmente utile anche nel combattere le conseguenze di esondazioni, come quella del fiume Seveso a Milano.

La legislazione italiana
I D.Lgs. n. 31/2001 e n. 27/2002, attuativi della direttiva 98/83/CE rappresentano le norme di riferimento per la qualità delle acque destinate al consumo umano, in Italia. Essi prevedono che su tali acque vengano eseguiti due tipi di controllo analitico chimico-fisico e microbiologico:  
• controlli interni, di responsabilità del gestore;
• controlli esterni effettuati dalle Aziende sanitarie.
La normativa elenca i parametri da monitorare e a ognuno di essi attribuisce un “valore parametrico” che costituisce un valore limite, superato il quale, occorre provvedere con adeguati interventi. I parametri da monitorare e di cui si chiede il rispetto della conformità sono inseriti nell’allegato 1 del D.Lgs. n. 31/2001. Per le parti A (parametri microbiologici) e B (parametri chimici) di tale allegato, in caso di non conformità al valore parametrico, viene proposto un percorso delineato dall’Azienda Usl (art.10 del D.Lgs. n. 31/2001 successivamente modificato dal D.Lgs. n. 27/2002), che prevede il ripristino immediato della qualità dell’acqua da parte del  gestore. La parte C dello stesso allegato 1 riporta invece una serie di parametri definiti “indicatori”. Anche per tale gruppo di parametri sono indicati i valori di cui si richiede il rispetto, ma cambia tuttavia il percorso da intraprendere (art.14 del D.Lgs. n. 31/2001 successivamente modificato dal D.Lgs. n. 27/2002). In questo caso il soggetto competente non è più l’Azienda Usl, bensì l’Agenzia di ATO (Ambito territoriale ottimale) che pianificherà interventi volti al ripristino della qualità dell’acqua, ma senza quel carattere di “emergenza” che è riservato ai parametri delle parti A e B.

Le basilari norme igieniche da rispettare
Nella filiera di trattamento dell’acqua, la disinfezione è indispensabile per garantire al cliente finale un’adeguata protezione igienico-sanitaria. E’ il dosaggio di disinfettanti a base di cloro, sia nell’impianto di produzione sia lungo la rete di distribuzione, a garantire la rimozione all’origine dei microrganismi potenzialmente patogeni e la persistenza necessaria a evitare il loro sviluppo durante la distribuzione. L’introduzione della clorazione, nei primi anni del secolo scorso, unitamente ai trattamenti di filtrazione, ha ridotto drasticamente a livello mondiale la diffusione di patologie connesse all’acqua utilizzata per l’alimentazione.
Affinché l’acqua perda l’odore e il sapore derivanti dalla presenza di cloro, solitamente si consiglia di adottare piccoli accorgimenti domestici: lasciare l’acqua in una brocca, magari riempiendola e rimettendola nel frigorifero di casa a fine pasto, consentendo al cloro di volatilizzarsi gradualmente. Oppure consumarla fredda, a bassa temperatura, perché risulti più gradevole.


La storia della gestione dell’acqua in Italia
Anche se di abitudine si associa l'acquedotto all'antica Roma, in realtà la sua invenzione risale ad alcuni secoli prima, quando, nel Medio Oriente, antichi popoli come i babilonesi e gli egiziani costruirono dei sofisticati impianti di irrigazione. Lo standard qualitativo e tecnologico degli acquedotti romani, tuttavia, non ebbe uguali per oltre mille anni dopo la caduta dell'Impero Romano. Molte delle esperienze accumulate dagli antichi romani vennero perse durante il Medioevo e in Europa la costruzione di acquedotti conobbe una interruzione fino al XIX secolo.
Fra il 1823 e 1851: in Italia, a più riprese, venne costruito a Lucca un acquedotto di foggia simile a quelli dell'antica Roma. Il suo architetto, Lorenzo Nottolini, progettò l'opera lunga circa 3,25 km per portare l'acqua del Monte Pisano nella città toscana ponendo alle sue estremità due tempietti che servivano all'approvvigionamento e alla gestione della struttura.
Nel 1870: poco prima della presa di Roma da parte dei bersaglieri sabaudi, viene inaugurato il nuovo acquedotto dalla concessionaria dell’Acqua Marcia, società anglo-romana poi divenuta Società anonima dell’Acqua Pia Antica Marcia, che tra i soci annovera la belga Compagnie Générales des Conduites d’Eaux.
Nel 1903: arriva la legge sulla “municipalizzazione dei servizi pubblici” (Legge 103) che consente alle amministrazioni comunali la gestione diretta dei servizi, idrico compreso. Furono 238 le aziende municipalizzate nate all’indomani della legge, di cui: 70 per impianti elettrici di produzione e illuminazione, 36 per impianti e produzione gas, 33 per aziende di case popolari, 25 acquedotti, 17 tramvie, 19 farmacie, 15 forni.
Nel 1958: viene votato il Piano regolatore generale degli acquedotti (Prga) (Legge 129) al fine di regolare l’uso corretto delle risorse idriche, di prevenire l’erosione e di approntare mezzi di difesa del territorio. Il piano seguì una procedura fortemente centralizzata, senza concertare con aziende ed enti locali gli interventi da predisporre.
Nel 1970: vengono istituite le Regioni (Legge 281) cui vengono nominalmente demandati alcuni compiti in materia idrica. In realtà, ai nuovi enti non erano state applicate le necessarie competenze tecniche e gli apparati organizzativi.
Nel 1976: viene varata la cosiddetta legge Merli (Legge 319) che disponeva norme per la tutela delle acque dall’inquinamento. Il primo tentativo maturo di valutare le risorse idriche nel loro complesso. La legge fu il risultato del lavoro di oltre 6 anni di studi e analisi da parte di esperti, scienziati e rappresentati delle varie amministrazioni che giunsero a redigere un primo piano di risanamento. I compiti operativi spettavano alle Regioni. La riforma in sostanza fallì, per mancanza di finanziamenti a copertura degli interventi e per carenza delle strutture regionali. Si continua ad erogare l’acqua potabile con un regime tariffario amministrato dal Cipe, che impone “prezzi politici”, con l’intento perequativo, visti i bassi livelli retributivi del Paese. L’effetto si manifesta nei bilanci delle maggiori società acquedottistiche, che – a fronte di tariffe controllate – vedono aumentare i costi di gestione, al pari dei volumi consumati.
Nel 1986: viene istituito il ministero dell’Ambiente, che inizia ad operare due anni dopo. Tra le sue direzioni generali, c’è quella che si occupa espressamente di acqua e suolo.
Nel 1989: entrano nell’ordinamento italiano i bacini idrografici, propri dell’esperienza politica inglese. Sono 11 quelli definiti di rilievo nazionale, che avranno il compito di istruire, adottare e controllare l’attuazione del piano di bacino (sistemazione, conservazione e recupero del suolo, risanamento delle acque e gestione del patrimonio idrico).
Nel 1994: viene votata la cosiddetta Legge Galli (Legge 36, per la riorganizzazione dei servizi idrici) che adotta per la prima volta il criterio dell’equilibrio del bilancio idrico: rapporto tra la disponibilità della risorsa e il fabbisogno per i diversi usi.


 

04 ottobre 2010
© Riproduzione riservata

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