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Corte UE: “Il coniuge è coniuge anche se è dello stesso sesso”


Una sentenza emessa il 5 giugno scorso decreta che “anche se gli Stati membri sono liberi di autorizzare o meno il matrimonio omosessuale, essi non possono ostacolare la libertà di soggiorno di un cittadino dell’Unione rifiutando di concedere al suo coniuge dello stesso sesso, cittadino di un Paese non UE, un diritto di soggiorno derivato sul loro territorio”.

07 GIU - La Corte di Giustizia della UE segna un’altra tappa importante verso il riconoscimento del matrimonio tra persone dello steso sesso.
 
I Fatti
Il sig. Relu Adrian Coman, cittadino rumeno, e il sig. Robert Clabourn Hamilton, cittadino americano, hanno convissuto per quattro anni negli Stati Uniti prima di sposarsi a Bruxelles nel 2010. Nel dicembre 2012 il sig. Coman e il suo coniuge hanno chiesto alle autorità rumene informazioni circa la procedura e le condizioni in cui il sig. Hamilton potesse ottenere, in quanto familiare del sig. Coman, il diritto di soggiornare legalmente in Romania per un periodo superiore a tre mesi. Tale domanda era fondata sulla direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazioneche permette al coniuge di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato tale libertà di raggiungere quest’ultimo nello Stato membro in cui soggiorna.
 
In risposta a tale richiesta, le autorità rumene hanno informato il sig. Coman e il sig. Hamilton che quest’ultimo godeva soltanto di un diritto di soggiorno di tre mesi, segnatamente per il motivo che egli non poteva essere qualificato in Romania quale «coniuge» di un cittadino dell’Unione, dato che tale Stato membro non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso («matrimoni omosessuali»).
 
Il sig. Coman e il sig. Hamilton hanno quindi proposto dinanzi ai giudici rumeni un ricorso diretto a far dichiarare l’esistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, per quanto riguarda l’esercizio del diritto di libera circolazione nell’Unione. La Curtea Constituţională (Corte costituzionale, Romania), investita di un’eccezione d’incostituzionalità sollevata nell’ambito di tale controversia, chiede alla Corte di giustizia se il sig. Hamilton rientri nella nozione di «coniuge» di un cittadino dell’Unione che ha esercitato la sua libertà di circolazione e debba ottenere di conseguenza la concessione di un diritto di soggiorno permanente in Romania.
 
La sentenza
Con la sua sentenza odierna, la Corte ricorda, innanzitutto, che la direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione disciplina unicamente le condizioni di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell’Unione negli Stati membri diversi da quello di cui egli ha la cittadinanza e non consente di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore dei cittadini di uno Stato non-UE, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza.
 
La direttiva non può quindi fondare un diritto di soggiorno derivato a favore del sig. Hamilton nello Stato membro di cui il sig. Coman possiede la cittadinanza, la Romania. La Corte ricorda, nondimeno, che, in alcuni casi, cittadini di Stati non-UE, familiari di un cittadino dell’Unione, che non potevano beneficiare, sulla base delle disposizioni della direttiva, di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro di cui tale cittadino abbia la cittadinanza, possono tuttavia vedersi riconosciuto un simile diritto sulla base dell’articolo 21, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (disposizione che conferisce direttamente ai cittadini dell’Unione il diritto fondamentale e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri).
 
La Corte prosegue indicando che le condizioni di concessione di tale diritto di soggiorno derivato non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva per la concessione di un simile diritto di soggiorno a un cittadino di uno Stato non-UE, familiare di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
La Corte constata che, nell’ambito della direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione, la nozione di «coniuge», che designa una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale, è neutra dal punto di vista del genere e può comprendere quindi il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione. La Corte precisa, peraltro, che lo stato civile delle persone, a cui sono riconducibili le norme relative al matrimonio, è una materia che rientra nella competenza degli Stati membri e che il diritto dell’Unione non pregiudica tale competenza. Questi ultimi restano quindi liberi di prevedere o meno il matrimonio omosessuale. Essa rileva altresì che l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale.
 
La Corte considera, tuttavia, che il rifiuto, da parte di uno Stato membro, di riconoscere, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato non-UE, il matrimonio di quest’ultimo con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro, è atto ad ostacolare l’esercizio del diritto di detto cittadino di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Ciò comporterebbe che la libertà di circolazione varierebbe da uno Stato membro all’altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale che disciplinano il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
 
Ciò premesso, la Corte ricorda che la libera circolazione delle persone può essere oggetto di restrizioni indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate, qualora tali restrizioni siano basate su considerazioni oggettive di interesse generale e siano proporzionate allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale.
 
A tale riguardo, l’ordine pubblico, che nel caso di specie viene invocato come giustificazione per limitare il diritto di libera circolazione, dev’essere inteso in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. L’obbligo per uno Stato membro di riconoscere, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato non-UE, un matrimonio omosessuale contratto in un altro Stato membro conformemente alla normativa di quest’ultimo non pregiudica l’istituto del matrimonio in tale primo Stato membro. In particolare, tale obbligo non impone a detto Stato membro di prevedere, nella sua normativa nazionale, l’istituto del matrimonio omosessuale. Inoltre, un simile obbligo di riconoscimento ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato non-UE non attenta all’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico dello Stato membro interessato.
 
La Corte ricorda infine che una misura nazionale idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone può essere giustificata solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dal momento che il diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare è garantito all’articolo 7 della Carta, la Corte rileva che anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risulta che la relazione che lega una coppia omosessuale può rientrare nella nozione di «vita privata», nonché in quella di «vita familiare», al pari della relazione che lega una coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione.
 
Fonte Ufficio Stampa Curia

07 giugno 2018
© Riproduzione riservata
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