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Il caso Bologna: tra responsabilità e politiche della salute

“Non dare mai consigli quando ciò che dici è solo una tua opinione”, recita un detto indiano. Per questo ogni opinione è ben lungi dall’essere un consiglio. Ma ciò non esime dal fare un’analisi dei fatti esprimendo solo un’opinione dal di dentro

31 MAR - Bologna, Bologna, una volta terra di fasti e d’illuminata politica sanitaria. Oggi spaccato della politica nazionale al cui centro delle dispute sta l’atto medico tra chi lo vuole o chi invece lo vuole sostituito con l’atto sanitario. Ovvero il dettato del Codice Deontologico – il “corpus juris della professione medica” - non denominato come tale, ma scritto come se lo fosse.
 
Nessun mansionario ma, come declinato nel codice, è insieme dei principi inalienabili, indelegabili dell’essere medico. Un Codice comunque sia innovatore e tutt’altro checonservatore, rispondendo a chi, come l’On. Lenzi definisce come il più conservatore d’Italia l’Ordine che lo applica, con cui, però, s’incontra per capire. Le cui critiche di conservatorismo forse sarebbe più consono rivolgerle al vertice regionale della sanità della RER.
 
A testimonianza di quest’affermazione, sempre parlando di Bologna, si hanno conferme dei sempre difficili rapporti fra “palazzaccio rosso”, di là da via Berlinguer, e l’insieme degli Ordini regionali, forse rei di non adeguarsi alle indiscutibili,nonché cacofoniche, “ragioni della Regione”. Spiace che non traspaia, perché si eviterebbero tanti luoghi comuni e tensioni anche se solo si ragionasse insieme, ad esempio sui protocolli dell’urgenza emergenza, facendo un buon servizio ai medici e alle stesse professioni sanitarie.
 
La scelta innovativa richiesta alla Regione e al suo vertice sanitario è aprirsi al confronto costruttivo coi medici delle Istituzioni, soprattutto su quegli aspetti di politica della salute che appaiono più rispondenti a logiche di disambiguità professionale, richiamandosi all’osservanza delle linee guida e dei protocolli, ispirate a puri interessi di mercato. Dunque, si puedes con juicio, incontrarsi e parlarsi.
 
Avendo il buon senso di non considerare modernità e innovazione situazioni che sono giustificate dall’assenza di medici, quando, invece, ve ne sono in numero più che sufficiente per garantire il servizio d’urgenza-emergenza, così come peraltro la legge dello Stato stabilisce.
 
Perché? La risposta è più che evidente, senza ammantarla da altre motivazioni: perché costa troppo. Visto poi che il problema dei costi si espande a macchia d’olio in tutti i settori sanitari, cosa dovremo aspettarci nel nome del risparmio? A parte l’ovvietà della risposta, non sempre trovare la “quadra politica” porta il consenso della collettività. Perché la quadra politica è la seconda motivazione, questa volta meno evidente.
 
Alla politica del “fare per protocolli e linee guida” si associa un ultimo ragionamento sull’evoluzione futura delle professioni e sulla loro volontà di sviluppo.
È naturale e comprensibile che le professioni sanitarie vogliano cambiare il loro approccio all’ammalato e desiderino, perché no, avvicinarsi alla professione medica.
 
Senza falsi pudori, per non cadere nel tranello delle bugie pietose sulle funzioni e mansioni evolute dall’uso dei protocolli, perché non favorire, dopo il triennio d’Infermieristica, un percorso a parte, definito, privilegiato e dedicato, dunque propedeutico, alla formazione medica e all’esame abilitativo in medicina e chirurgia?
Come contributo ulteriore al problema delle linee guidauna bella disamina la fa l’epidemiologo Giuseppe Traversa[1]con un’analisi lucida sulla loro pericolosità non solo se mal utilizzate, ma anche sul loro reale utilizzo da parte dello stesso medico. Nell’articolo pubblicato su R&P, Pensiero Scientifico Editore, cita peraltro anche l’associazione A. Liberati, sorta nel nome del noto epidemiologo di cui ha memoria la RER per la sua preziosa opera pluriennale all’ombra delle due Torri.[2]
 
Dall’insieme delle vicende ultime perciò l’ennesimo invito a non più rinviare la riforma degli studi universitari delle professioni sanitarie e l’identificazione preliminare degli ambiti d’azione all’insegna di una garantita correttezza di rapporti interprofessionali.
 
I pannicelli caldi sappiamo non risolvere i problemi della sanità e men che meno servono a tutelare il cittadino. Come anche a evitare i conflitti. E, per quanto possa apparire, il caso Bologna oggi s’articola fra responsabilità politiche e politiche sanitarie, su cui v’è molto da riflettere.
 
Questa volta un consiglio: si eviti alla RER il premio ipotizzato dell’Accademy assegnato per la migliore scenografia sull’incomunicabilità e, come ensamble, per attori protagonisti e non protagonisti.
 
Il tempo è maturo per il cambiamento senza che i vertici RER lo considerino Lesa Maestà. Come la primavera ormai in atto, che fa sbocciare i germogli, preludi dei frutti, così, a parte i discutibili premi dell’Accademy che vorremmo evitare, si spera che il terreno regionale sia fertile a tal guisa da dare il frutto del buon senso che nasce dalla pianta dei buoni rapporti.
 
Anche coi medici della Regione, beninteso. Così forse guadagnerebbe punti per la nomination agli l’Oscar della Buona Amministrazione.
 
Pierantonio Muzzetto
Presidente Omceo Parma
[1]Giuseppe Traversa, Centro nazionale di Epidemiologia, Istituto Superiore di Sanità - giuseppe.traversa@iss.it

[2] Associazione A. Liberati  “attribuire alle linee guida un significato regolatorio può comportare seri pericoli per i pazienti, perché i medici potrebbero essere forzati a scelte formalmente ‘aderenti’, anche quando non appropriate nel caso specifico”. R&P, Il Pensiero ScientificoEditore 2016; 32:16-17    


31 marzo 2016
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