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Più competenze agli infermieri? Parliamone

07 GEN - Gentile direttore,
si tratta di argomento serio e che non può essere affrontato partendo “dalla fine”, ma che deve essere esaminato in una cornice più ampia. In tutto il mondo se ne discute e si prendono decisioni, si fanno scelte. La differenza è che, mentre altrove si agisce prima a livello normativo, per poi passare alla applicazione pratica, da noi si cerca di introdurre le novità in modo subdolo.

Compiti e ruoli delle professioni sanitarie sono definiti da leggi. Prescrizioni e diagnosi sono, allo stato, esclusivi dei medici. Vogliamo cambiare le cose? Parliamone. In molti paesi le cose stanno diversamente. La diagnostica ecografica, in molti stati è appannaggio di tecnici formati. In California e in Colorado, l’attività di anestesista è aperta ad infermieri con un training di uno o due anni.
Ma, a queste aperture, sembra che nessuno sia interessato; nemmeno gli infermieri, che insieme agli onori, ne dovrebbero assumere pure gli oneri e la responsabilità, anche medico-legale.

E allora, si introduce la storia della fragilità, della gestione della cronicità, dei percorsi dedicati... Si inserisce in questo scenario, il problema della gestione delle emergenze-urgenze extraospedaliere, del 118; con tutto quanto ne è derivato. E’ palese che esiste un problema; che far quadrare i conti, fare programmazione, fare investimenti e assunzioni, non è cosa facile; ed è palese che un infermiere, o un soccorritore che sappia, voglia, e sia autorizzato a reperire una via, somministrare una fisiologica o un farmaco in emergenza può fare la differenza tra la vita o la morte; ma è altrettanto palese che la soluzione non può essere nella abdicazione dei medici ai loro compiti e alle loro prerogative. Chi ha una visione della futura sanità, in cui agli infermieri o ad altri siano attribuiti compiti oggi riservati ai medici, abbia il coraggio di uscire allo scoperto e proporre modifiche legislative coerenti.

Accettiamo, in via ipotetica, di ridisegnare i limiti delle competenze, per venire incontro alle necessità economico-gestionali delle Aziende e delle
Regioni, e (perché no?) alle aspirazioni dei professionisti sanitari non medici. Dove intervenire? Tra le attività che un medico laureato e abilitato può compiere, si passa dalla gestione di una storta alla caviglia al trapianto di fegato, da una stomatite aftosa alle cure palliative oncologiche, dall’insonnia alla cura dell’epatite C, dalla tosse all’angioplastica coronarica.

Nella vita reale, poi, accade che c’è chi, come il medico di medicina generale, affronta prevalentemente casi “lievi”, e chi, ad esempio un cardiologo emodinamista, si confronta ogni giorno con situazioni ad alto o altissimo rischio.

Partendo da questa constatazione, qualcuno ha ipotizzato (e cerca di promuovere) l’idea di de-classificare i professionisti addetti alle patologie leggere, promuovendo figure come gli infermieri. Negli USA ciò avviene già, non tanto per scelta, quanto per mancanza di medici; e si è constatato che i costi assistenziali salgono, per un maggior ricorso a diagnostica complessa o a ricoveri.

A ben guardare, bisogna riconoscere che, per quanto rivolta a patologie di per sé meno gravi, l’attività di Primary Care, deve curare pazienti molto complessi, per motivi di età, di comorbidità, di interazioni farmacologiche, di effetti collaterali. Un anziano ottantenne (o novantenne) che presenta artrosi, reflusso gastroesofageo, fibrillazione atriale, BPCO, e diabete, e deve per qualche motivo assumere un antibiotico, non ha patologie “gravi”, ma è un caso estremamente delicato e difficile da gestire. Difficile per un medico laureato e con un paio di specializzazioni o diplomato al corso di formazione triennale. Non credo che un infermiere, dopo un corso di preparazione specifico su una di queste patologie, possa prendere a mano un caso del genere.
 
Per contro, proprio le patologie gravi e acute, come la dispnea di un paziente terminale per cancro della trachea, o l’angioplastica in corso di Infarto acuto del Miocardio, sono esempi di attività medico-chirurgica certamente più “prestigiose”, ma che, proprio per la estrema specificità, sono più facilmente “imparabili” con corsi di formazione specifici e relativamente brevi.

In casi del genere, oltretutto, ci si trova ad agire in condizioni di urgenza, nelle quali la patologia o il sintomo prevalente ha la netta precedenza su qualsiasi altra co-patologia esistente, e di fatto, è possibile disinteressarsi (o quasi) del quadro clinico generale.
Sembra quasi un paradosso, ma non potrebbe essere più ragionevole e razionale, una rivoluzione nell’attribuzione dei compiti e delle prerogative, che si applichi a situazioni, anche gravi, ma in cui la competenza specifica è nettamente più importante della “scienza medica” generale?

Mi perdonino i colleghi cardiologi, che sanno di avere la mia ammirazione e la mia stima, ma chi compie un cateterismo coronarico, con coronarografia e posizionamento di stent, può benissimo ignorare la nefrologia e la dermatologia, e avere solo vaghe nozioni di antibioticoterapia. Una buona manualità, la conoscenza dell’anatomia dell’albero coronarico e delle sue varianti, e la dimestichezza con i materiali, sono sufficienti come bagaglio professionale di un ottimo emodinamista. Se vogliamo che non sia necessariamente un medico, basta (!?) agire a livello legislativo, dopo una discussione articolata e democratica, evitando di lasciare il tutto all’iniziativa e all’arbitrio del dirigente o dell’amministratore locale di turno.

Enrico Delfini
Direttivo FIMMG Bologna


07 gennaio 2017
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