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L'analisi. Meno spesa e meno tasse. L’Italia scopre Friedman o è la solita operazione per far cassa?

di C.F.

19 NOV - La legge di stabilità che “non taglia la sanità” non è ancora stata approvata e già si è capito che quella promessa ha le gambe molto corte. Ieri pomeriggio il ministro dell’Economia Saccomanni e il neo Commissario straordinario alla spending review Cottarelli sono scesi in sala stampa a Palazzo Chigi, dopo la riunione interministeriale che ha dato il via al programma di revisione della spesa, e con toni pacati e molti sorrisi ci hanno detto che dal 2014 al 2016 saranno tagliati 32 miliardi di spesa pubblica. Una cifra pari al 2% del Pil. E la sanità figura nei settori oggetto dell’operazione.
 
Attenzione, la parola taglio, come ormai abitudine da qualche tempo, non è mai stata pronunciata. Si preferiscono termini più soft, come risparmi, guadagni di efficienza, minimizzazione dei costi. E soprattutto si giura che tutto questo serve sì a spendere meno nella PA ma soprattutto serve a migliore la qualità dei servizi erogati.
 
Questa estetica di approccio, tutta italiana, si spiega solo con la nostra paura a dire chiaramente all’opinione pubblica cosa si vuole fare e perché. In altri Paesi che hanno storicamente adottato politiche simili (e cioè riduzione spesa pubblica e minori tasse) nessuno si sarebbe mai sognato di chiamare i tagli alla spesa pubblica come “guadagni di efficienza”.
 
Sappiamo bene che ancora oggi non si scappa (e nemmeno in questa crisi) dalle due ricette basilari dell’economia moderna: quella keynesiana con lo sviluppo della spesa pubblica come volano per rilanciare l’economia stagnante o addirittura recessiva  e quella monetarista ispirata alle teorie di Milton Friedman di stampo liberale e orientate a una forte limitazione dell’intervento pubblico per ridurre il peso fiscale e favorire i consumi privati.
 
Ad ascoltare Saccomanni, che ieri ha detto che i risparmi serviranno prima di tutto a ridurre le tasse, potremmo dedurre che dopo decenni di politiche sostanzialmente keynesiane, anche l’Italia, come fece la Gran Bretagna della Thatcher e l’America di Reagan, stia svoltando verso il pensiero di Friedman.
 
Ma è veramente così? Non mi pare.  Ancora una volta mi sembra che si stia cercando di mascherare sotto le parole d’ordine dell’efficienza e dell’appropriatezza una necessità più elementare: quella di fare cassa per tamponare il debito pubblico e restare nei parametri europei che tutti dicono di voler ridiscutere ma che nessuno realmente fa nulla per cambiare.
 
Del resto, come dicevamo, l’Italia, dalla seconda guerra mondiale in poi, nonostante le rivoluzioni liberali promesse da diversi esponenti politici e tra tutti da Silvio Berlusconi, ha sempre avuto un approccio keynesiano alla gestione dell’economia. Anche se sembra ci dia fastidio ammetterlo. Ma c’è sempre stato un problema, tutto italiano. La ricetta di John Maynard Keynes funziona se a un tot di spesa pubblica corrisponde un tot di entrate. Se l’equilibrio salta ci si indebita. E noi siamo “molto” indebitati.
 
Ma ciò è avvenuto perché spendiamo troppo? No, la nostra spesa pubblica è in linea (e in molti campi inferiore) a quella dell’UE. Allora perché paghiamo poche tasse? No, le nostra aliquote sono anch’esse in linea con quella della UE. E allora? Perché da noi “non tutti” pagano le tasse, mentre tutti usufruiscono dei servizi dello Stato Sociale. L’evasione stimata ammonta infatti secondo la Corte dei conti a 180 miliardi di euro l’anno.
 
Ovvero più di 5 volte e mezzo l’ammontare della nuova spending review triennale. Eppure di tutto questo non se ne parla, tranne che, ogni tanto, in sedi poco utili come quelle dei dibattiti televisivi. Quasi mai nelle aule del Parlamento e ancor meno a Palazzo Chigi. Perché? Le motivazioni sono le più varie ma quelle più gettonate sono due: recuperare tutti quei soldi è impossibile e quindi dobbiamo fare i conti al netto di questo problema (e così tutti i dati macroeconomici sballano!); l’evasione italiana è in gran parte una forma di autotutela delle piccole realtà imprenditoriali, professionali e del commercio che, se non evadessero, sarebbero già morte.
 
C’è un po’ di verità in ambedue le motivazioni. Questo è indubbio. Ma sarebbe giusto non dimenticare che il problema esiste. Sarebbe più onesto ad esempio che qualcuno lo dicesse con chiarezza: “Cari italiani dovete stringere ancora la cinghia e dovete fare a meno di qualche servizio pubblico perché molti di noi non pagano le tasse e i soldi non ci bastano per colpa di costoro”. Brutto no? Sì, ma almeno sarebbe la verità.
 
E invece no. Chi ci governa ci continua a trattare come bambini capricciosi e anche un po’ ignoranti. E allora giù con la storiella che nell’Italia della cosa pubblica non funziona nulla. Oltre che non essere vero, anche laddove persistono inefficienze evidenti non si punta il dito su chi le gestisce perché non è competente, né si mette all’indice il fatto che chi dovrebbe applicare le leggi, che negli anni hanno provato a migliorare tecniche e metodi di amministrazione e a ridisegnare l’organizzazione del sistema (per la sanità, una su tutte, la mai attuata riforma del territorio), non lo fa.
 
La cosa pubblica non funziona e basta. Alla fine sembra quasi che sia colpa nostra. Perché ci ammaliamo e allora facciamo le code in ospedale, perché vogliamo mandare i nostri figli all’asilo e allora facciamo intasare il sistema, perché vorremmo avere una pensione decente dopo aver lavorato 40 anni e passa e allora mandiamo in rosso le casse dell’Inps e affini. E così via.
 
E tornando alla scelta tra Keynes e Friedman, mi sembra onestamente che anche stavolta, come ormai accade da molti anni, non riusciamo a scegliere una via chiara, apertamente e fino in fondo. Non rilanciamo la spesa pubblica, perché abbiamo troppo deficit e le tasse si continuano ad evadere, né liberalizziamo veramente l’economia, perché alla fine nessuno vuole rinunciare allo Stato Sociale. E così ci inventiamo una nuova spending review.
 
Alla fine, nonostante i tanti distinguo, la risposta che anche questo Governo sta assumendo è la stessa operata da Mario Monti con la sua spending review . Anche in quell’occasione si giurò che non si sarebbe trattato di tagli lineari ma solo di risparmi derivanti dal recupero di efficienza. Almeno in sanità siamo certi che così non è andata. E al momento non abbiamo alcuna garanzia che anche la spending di Cottarelli non sarà applicata in modo analogo.
 
E poi perché Cottarelli dovrebbe riuscire dove Bondi ha fallito? E’ cambiato qualcosa nel frattempo? A me sembra proprio di no. Anzi, se all’operazione Bondi i più sembravano crederci, oggi nessuno crede più alla favoletta dei “non tagli”. I tagli ci saranno eccome e vediamo se sarà vero che serviranno a finanziare investimenti e riforma del fisco. Oppure, come già accaduto, a mettere solo una pezza a un bilancio che in Europa non è proprio piaciuto.
 
C.F.
 
PS. Senza contare poi l’uscita di ieri sera del ministro Lorenzin che di fatto ha stoppato Cottarelli sulla sanità, sostenendo che il comparto la sua parte già l’ha fatta con i tagli di Berlusconi e Monti e che i nuovi risparmi si faranno nel Patto per la Salute (il ministro ha parlato addirittura di 30 miliardi in 5 anni), ma saranno per la gran parte reinvestiti nel sistema.

19 novembre 2013
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