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L'eterologa, il titolo V e la maternità che vorremmo

di Sandra Morano

Bisogna fare di tutto perché l'infertilità, una malattia da curare come tutte le altre, abbia garanzie di opportunità e gratuità per tutti. Ma intanto, dove sono le politiche a sostegno della maternità? O meglio, dov'è la politica?

02 SET - Un bilancio di salute di questa prima estate al’insegna del fare e del cambiare non può trascurare la tematica che ha occupato le pagine dei giornali da quando la consulta si è positivamente pronunciata a favore della fecondazione eterologa. Da allora la notizia, con i suoi strascichi parlamentari e bioetici, continua ad occupare le prime pagine, in questo agosto caratterizzato da un tempo incerto, e da un più incerto futuro, denunciando un bisogno che sembrerebbe al primo posto nell’attenzione dei media e dei governanti: i bambini.

Il tradizionale “Son tutte belle le mamme del mondo” è stato modernamente sostituito dal diritto per ogni coppia ad un concepimento purchessia. E per garantire questo, seguendo quotidianamente il tormentone dei media, Parlamento e Regioni utilizzano febbrilmente quel che resta delle energie messe a dura prova dalle recenti marce forzate. Ci sono pazienti che aspettano, e ci sono tanti Centri pubblici e privati, costretti anch’essi ad aspettare la istituenda normativa. A fronte dei numerosi problemi della sanità questa materia, nella mente di molti amministratori e politici, riveste una particolare urgenza. Le regioni più virtuose sono già pronte a partire nel vuoto di una normativa nazionale, e le loro giunte potrebbero già deliberare in merito. Un nuovo titolo V, cacciato dalla porta, rientra da una finestra eterologa.

Non è certo da stigmatizzare l’infertilità, una delle tante entità nosologiche che affliggono (per fortuna in esigua minoranza) la popolazione maschile e femminile, e tantomeno in un’ottica confessionale. E’ nella nostra cifra, invece, di umili specialisti nel campo, occuparci di quella “normale” frontiera riproduttiva, così poco presente alla politica nel nostro paese, che nei paesi anglosassoni si chiama Childbirth, parola a più valenze, che in Italia riassumiamo in maternità, negli ultimi tempi sempre associata a vari aggettivi. Maternità libera e consapevole, slogan che l’ha portata alla ribalta alcuni decenni fa, e da allora congelata in questa sola rappresentazione.

La maternità senza aggettivi, invece, quella che dovrebbe spontaneamente realizzarsi nella popolazione di donne in età fertile in un paese normale è, come denuncia lo statistico Volpi, nei fatti scoraggiata. Sono le donne italiane di fronte alla procreazione che nel nostro paese dovrebbero disturbare i sonni dei governanti, con i loro negativi primati europei e mondiali in numero di figli, età avanzata al primo parto, ed assoluta incapacità a partorire per via vaginale.

Una popolazione del tutto inadeguata, una specie da proteggere, come il panda ed altri animali? Ma il nostro indice di fertilità, uno dei più bassi in Europa, è, come denunciano gli studi degli economisti(Lavoce.info), indirettamente proporzionale al tasso di disoccupazione femminile. Cioè le donne non fanno figli, soprattutto al Sud, non perché rincorrano pari opportunità, ma perché non possono mantenerli, e, paradossalmente ma non tanto, dove c’è lavoro femminile si fanno più figli.

Quando poi la giovane (32 anni in media) donna arriva alla sofferta scelta di avere un figlio, scopre durante la gravidanza un percorso ad ostacoli in cui una schiera di specialisti, dal ginecologo al pediatra all’anestesista, richiedono una pletora di esami (ed ecografie),spesso inutili, che costano loro non meno di 200 euro (di ticket) per volta. E scopre infine di abitare nel paese col più alto numero di tagli cesarei, in cui viene alimentata una (sub)cultura della maternità capace solo di trasmettere paura sulla sua naturale competenza, la capacità di partorire, paura che l’utilizzo dell’epidurale non ha minimamente scalfito nelle strutture in cui è offerta da anni.

Come è stato possibile arrivare in pochi decenni a questo nel nostro paese (complice sicuramente una ginecologia disattenta che ha abdicato alla sua mission di sostegno alle partorienti) in cui tutti hanno ritenuto più facile occuparsi della cura della infertilità che de-costruire una cultura del rischio? Quella che porta tutta la popolazione femminile a quel famoso 38% di TC, percentuale inferiore solo a Cipro in Europa e al Messico nel mondo?

Non basta, come la Toscana ‘prima della classe’ ha dimostrato, un perfetto percorso nascita: la cultura della ”maternità che scoraggia la maternità” non risparmia le donne toscane, che si comportano, per tassi di fecondità, come tutte le altre. Un curioso dispositivo di non-politiche nei confronti della maternità tout court fa sì che questa sia scoraggiata nella popolazione fertile, come da tempo predicano inascoltati gli esperti . I figli si fanno da giovani, consigliano, quando la salute riproduttiva e le forze lo permettono. E’ allora che con tutti i mezzi – e con messaggi non farisaici- dovremmo sostenerla.

I figli hanno un costo comunque, e, come la maternità, un valore sociale, casomai lo avessimo dimenticato. Non si può continuare, nei fatti, ad eludere nella vision e nella educazione dei cittadini il valore della maternità, a rimanere sordi di fronte alla ‘incapacità’ delle donne a partorire se non col TC, a non investire seriamente nel futuro delle giovani generazioni scotomizzando le loro oggettive difficoltà riproduttive. E riservare allo stesso tempo un interesse così determinato e inderogabile solo quando la maternità non è più possibile naturalmente. Materializzarsi dopo senza aver fatto niente prima per sostenere, prevenire, come la stessa comunità di specialisti ci suggerisce.

I bambini ci piacciono tanto, sì, siamo ancora il paese in cui tutte le mamme, ancorchè ‘attempate’, sono belle, e dobbiamo fare di tutto perché l’infertilità, una malattia da curare come tutte le altre, abbia garanzie di opportunità e gratuità per tutti. Ma intanto che i parlamentari conducono battaglie (mirate) sul diritto alla cura, che gli assessori, già in campagna elettorale, giocano alla devolution su questo provvedimento, in un perverso giro di giostra in cui non si capisce se la fretta vuole combattere o favorire il privato, dove sono le politiche che vorremmo a sostegno della maternità ? O meglio, dov’è la politica?
 
Sandra Morano 
Ginecologa - Ricercatrice Università di Genova

02 settembre 2014
© Riproduzione riservata

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