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Appropriatezza, umanizzazione e responsabilità del medico

di Antonio Ciofani

Per riconoscimento unanime oggi sempre più il malato richiede e ricerca maggiore umanizzazione e "presa in carico certa" del proprio caso. Ma tutto ciò deve avvenire mettendo in primo piano l’attività clinica rispetto alle logiche e alle direttive manageriali

26 APR - Le disquisizioni attorno al concetto di appropriatezza in sanità sono molto spesso astratte. La vita quotidiana nei reparti ospedalieri clinici è un'altra cosa e negli ultimi anni progressivamente la distanza tra la teoria e la prima linea a diretto contatto con i malati, sempre più complessi, con patologie multiorgano, con  gravi problemi socio-famigliari e con risorse sempre più esigue, è aumentata per tutta una serie di motivi. Tutto ciò grava sul medico, che sempre più spesso si ritrova solo, di fronte a decisioni di enorme impatto etico-morale, socio-familiare e, ovviamente, clinico. E’ sempre il medico in fin dei conti che, se qualcosa non va per il verso giusto, viene denunciato e sbattuto sui media e ciò vuol dire che viene considerato portatore delle maggiori responsabilità. E se maggiori sono le responsabilità, maggiore deve essere il rispetto e l'ascolto nelle scelte strategiche.
 
E la rilevanza della responsabilità e della solitudine del medico di fronte a scelte concernenti la vita umana è stata recentemente sancita dalla Suprema Corte di Cassazione (Sentenza n. 1873/2010 - Quarta Sezione Penale) " ... la direttrice del medico non può che essere quella di rapportare le proprie decisioni solo alle condizioni del malato, del quale è, comunque, responsabile. - .... i principi fondamentali che regolano, nella vigente legislazione, l'esercizio della professione medica, richiamano da un lato il diritto fondamentale dell'ammalato di essere curato ed anche rispettato come persona, dall'altro, i principi dell'autonomia e della responsabilità del medico, che di quel diritto si pone quale garante nelle sue scelte  professionali... Nel praticare la professione dunque,  il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenza di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità.... a nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della prima, pongano in secondo piano le esigenze dell'ammalato. Mentre il medico, che risponde anche ad un preciso codice deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara posizione di garanzia, non è tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente  e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico".
 
Più esplicito il primo presidente emerito della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone che ha affermato, in un convegno lo scorso anno 2012, che i medici " possono non ottemperare alle norme dell'ordinamento qualora queste contrastino con gli scopi della professione medica".
E la Quarta Sezione Penale della Cassazione nella recentissima sentenza 11493/2013 depositata l'11 marzo 2013, nel confermare la condanna di un ginecologo campano che aveva provato a discolparsi citando le linee guida regionali sui criteri di scelta tra cesareo e parto naturale, coglie l'occasione per ribadire che le linee guida "non devono essere ispirate a esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente". Il medico ha dunque "il dovere di disattendereindicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente".  
Ma la Suprema Corte va ancora oltre. Il Sole 24 Ore Sanità, di aprile 2011, sintetizzando nel titolo e nell'occhiello con grossa evidenza, riportava quanto sentenziato dalla Corte di Cassazione Civile (Sez. Lavoro sent. n. 2459/2011) " L'attività clinica ha maggior peso rispetto alle  altre funzioni dirigenziali".
     
Per riconoscimento unanime oggi sempre più il malato richiede e ricerca maggiore umanizzazione e "presa in carico certa" del proprio caso e ciò non può che avvenire partendo da quanto così esplicitamente delineato dalla Suprema Corte relativamente alla centralità del rapporto medico-paziente.    
 
Dr. Antonio Ciofani
Responsabile Struttura Complessa di Nefrologia e Dialisi, Ospedale di Pescara
Consigliere Nazionale Anaao-Assomed

26 aprile 2013
© Riproduzione riservata

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