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Lo sciopero della sanità per il contratto. Una scelta sacrosanta

di Ivan Cavicchi

In sanità il contratto non è solo un contratto ma la base per gestire il sistema. Tuttavia coloro che hanno sempre deciso e continuano a decidere la politica sanitaria non lo hanno mai capito. E poi, si dice di non voler più tagli lineari, ma bloccare sine die le retribuzioni, cos'è se non un taglio lineare?

12 LUG - La parola “scioperare” viene dal latino “ex operari” che significa “fuori dal lavoro”. Fuori dal lavoro della sanità c'è la politica, la pubblica opinione, le istituzioni, la società, la crisi, ma anche l'art. 32 della Costituzione il suo valore sociale e i destini di tante tante persone. “Ex operari” è quello che vuole fare  l'intersindacale medica  il 22 luglio. In questo “ex”, andare fuori e oltre il lavoro, vi è tutto il senso profondo di una protesta ormai indifferibile.
”Non è una questione di soldi” ci dice giustamente l'intersindacale “il contratto  è strumento di governo” esso vale tanto per gli operatori che per i malati, gli amministratori e per tutti coloro che passano notti insonni a pensare alla sostenibilità. 
 
In sanità il contratto non è mai stato solo un contratto o meglio non avrebbe mai dovuto essere solo un contratto ma coloro che hanno sempre deciso e continuano a decidere la politica sanitaria non lo hanno mai capito. Il primo importante contratto ospedaliero, 23 giugno 1974, (88 articoli, 8 allegati con parti dedicate a organizzazione, formazione, trattamento economico), è venuto fuori  dopo ben  6 anni dalla riforma ospedaliera Mariotti. Il primo contratto unico della sanità, 25 giugno 1983, (una categoria di almeno 620.000 addetti, una cinquantina di qualifiche, con  contrattazione decentrata, e importanti  istituti normativi, organizzativi ed economici) è venuto  fuori cinque anni dopo la riforma sanitaria.
 
Lo scollamento tra i processi di riforma e i contratti, cioè tra le politiche sanitarie e il lavoro, è sempre stato il punto più critico della sanità del nostro paese. Il lavoro non è mai stato considerato un fattore primario di cambiamento ma solo una spesa inevitabile o da contenere o da bloccare o da riparametrare salarialmente. A dimostrarlo a parte questo ormai “insostenibile” blocco della contrattazione, la lunga tormentata storia di precariato nel nostro settore. In questi anni la tripletta classica è  stata: “blocco del turn over-precariato-sanatoria”. Negli anni ’80, se non ricordo male, si concluse una sanatoria che riguardava 100.000 precari senza i quali i nuovi servizi territoriali non sarebbero potuti decollare. Prima si   “precarizzava  per andare avanti ” poi con l'acqua alla gola della protesta si  “stabilizzava” quindi si  precarizzava di nuovo, arrivando di questo passo  ai nostri giorni.
 
Mai una idea vera e diversa di lavoro. Oggi  Regioni e Governo sono pronti  a sbloccare  la normativa contrattuale mantenendo il blocco della parte economica. Quanta inutile miopia! Cambiano i governi ma la svalutazione del lavoro continua implacabile a traversare gli schieramenti tanto di destra che di sinistra ad ogni livello. Separare la retribuzione dalla sua disciplina è come separare il lavoro da tutto il resto e ridurre gli operatori a servitori obbedienti. Cosa ci guadagniamo ad azzerare  le loro autonomie responsabili e ad espellerli da ogni tipo di politica che li riguardi? Oggi rinnovare i contratti sembra un attentato alla precaria stabilità del paese. Ma è una pura follia. Senza un buon contratto non si cambia un fico secco. Alla ministra Lorenzin che a più riprese ha dichiarato perentoriamente “basta tagli lineari” chiedo: ma il blocco delle retribuzione non è per caso un taglio lineare? Il punto cara ministra non è tagliare sulle retribuzioni ma riconcepirle per retribuire delle contropartite, degli esiti, dei risultati, degli effetti, cioè dei valori di ritorno. In una parola per ottenere dei cambiamenti. Quali cambiamenti possiamo chiedere ai nostri lavoratori? Lei lo sa? Quale contratto servirebbe? Cosa propongono le Regioni?
 
Aderirò idealmente anche a  questo “ex operari” perchè in me profonda è la convinzione che soprattutto oggi il vero termine medio del cambiamento e della crisi, è il lavoro. Ormai non è più neanche questione di “svitol” (noto lubrificante) cioè di sbloccare vecchi contratti ingrippati ma di alzare il tiro: definire un vero e proprio mercato del lavoro funzionante deprecarizzato sulla base di una nuova idea di  lavoro e  di contratto ripensando modelli, strutture, logiche, forme retributive. Lo penso e lo scrivo da una vita perchè da una vita usiamo lo “svitol” nel tentativo di redimere il conflitto “lavoro/spesa”. Troppe ormai  sono le cose che dall'83, pur con tante variazioni, ingrippano questo vecchio e  macilento modello  di contrattazione: comparti come stive che non riescono più a contenere la grande varietà e complessità dei “lavori” medico-sanitari, appiattimenti normativi che non reggono più, confusione di ruoli, dirigenze indistinte, forme retributive obsolete, diversità contrattuali ingiustificate a parità di qualifica, forme salariali più speculative che redditizie.
 
Di tutto e di più. Altroché bloccare i contratti! Bisogna fare esattamente il contrario. Tutte le politiche sanitarie anche quelle per la sostenibilità  per essere plausibili dovrebbero definire il lavoro come il loro condizionale fondamentale. La sfida non  è separare la normativa dalla retribuzione ma  retribuire i risultati effettivi del lavoro andando oltre le retribuzioni definite burocraticamente sulla carta  da profili, mansioni, compiti. Se i contratti diventano catorci lo “svitol” non basta più.
 
Ivan Cavicchi 

12 luglio 2013
© Riproduzione riservata

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