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Mastrogiovanni e Cucchi: ma gli infermieri sono del tutto innocenti?

di Giovanni Muttillo

Le sentenze penali sui decessi di Francesco Mastrogiovanni e Stefano Cucchi in due strutture del Ssn hanno avuto un grande risalto sui mass media. Ma non sempre adeguati commenti sugli specifici aspetti giuridici, etici e deontologici inerenti a ciascuna vicenda e il ruolo degli infermieri

03 OTT - Medici condannati e infermieri assolti per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Si tratta di una vittoria o di una sconfitta per la professione infermieristica? Morire di contenzione o non valutare lo stato nutrizionale, come accaduto nel caso della morte di Stefano Cucchi, è lecito e deontologicamente accettabile? A queste domande si cercherà di rispondere in occasione del convegno nazionale “Malpractice, maltrattamenti e responsabilità professionale” organizzato il 4 ottobre a Firenze, nel corso del quale i due casi di cronaca saranno dibattuti sotto il profilo giuridico, medico-legale e professionale.

Pubblichiamo alcuni estratti dalla relazione che Giovanni Muttillo, CTU Tribunale di Milano e presidente Collegio IPASVI Milano-Lodi-Monza e Brianza, presenterà al convegno per introdurre il dibattito (leggi il contributo integrale).

Le due vicende sono note. Francesco Mastrogiovanni era un paziente ricoverato il 31 luglio 2009 presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania in regime di trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.) e lì deceduto il 04 agosto dopo essere stato quasi ininterrottamente sottoposto ad una ingiustificata procedura di contenzione anche fisica che – secondo il giudicante – ne ha causato il decesso. Stefano Cucchi era invece un giovane detenuto, in attesa di giudizio, che per motivi sanitari è stato ricoverato dal 17 ottobre 2009 al 22 ottobre 2009 presso la struttura complessa di medicina protetta di un ospedale della capitale dove è deceduto in stato di grave malnutrizione.

Gli infermieri sono stati tutti assolti con varie formule dai reati loro ascritti con motivazioni sulle quali appare comunque opportuno soffermarsi.

Nel caso Mastrogiovanni si è sottolineato come non vi sia stata alcuna prescrizione medica scritta ed annotata in cartella clinica sulla contenzione del paziente, tant’è che ad alcuni medici è stato contestato anche il delitto di falso ideologico in cartella clinica per non avere dato atto che il paziente era stato legato al letto con fasce di contenzione ai piedi e alle mani durante il ricovero nel reparto, con conseguente condanna per avere formato una documentazione clinica non veritiera su un fatto rilevante ai fini dell’assistenza.

Secondo il Tribunale, comunque, gli infermieri hanno ritenuto per errore di fatto di obbedire ad un ordine “legittimo” proveniente dai medici che hanno prescritto la contenzione e li ha ritenuti non colpevoli. Ma occorre osservare che una prescrizione “orale” non è certamente una valida prescrizione e che, comunque, dagli atti non emerge che la contenzione sia stata prescritta in conformità agli elementi minimi di una prescrizione medica. Ne consegue che gli infermieri non erano tenuti ad attuare la richiesta orale di contenzione proveniente dai medici in quanto, essendo dei professionisti, non devono eseguire qualsiasi prescrizione medica, ma solo quelle che siano conformi alle norme vigenti e che, pertanto, siano annotate in cartella e contengano tutte le indicazioni del caso. Inoltre non deve essere dimenticato che l’infermiere è un professionista che, assumendosene le relative responsabilità, può legittimamente dissentire da prescrizioni il cui contenuto sia palesemente illegittimo, come accertato dal Tribunale nel caso di specie.

E ancora, come sottolineato anche dall’art. 30 Codice Deontologico degli infermieri, l’infermiere deve adoperarsi “affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali. ” e, nel caso di specie, non risulta che gli infermieri coinvolti si siano attivati in tal senso.

Questi, ed ulteriori aspetti, fanno emergere come nel caso Mastrogiovanni gli infermieri abbiano avuto un comportamento assolutamente appiattito ed omissivo alle gravi decisioni/non decisioni mediche.

Difatti il problema sembra riguardare la possibile rilevanza dell'ordine del medico sul piano della colpevolezza dell'infermiere per l'omicidio colposo del paziente, da un lato per aver concorso a realizzare una contenzione manifestamente criminosa per le ragioni per cui è stata disposta e per le modalità con cui è stata realizzata, e dall'altro per aver omesso di pianificare l’assistenza, di praticare le cure e i controlli sanitari che la situazione avrebbe richiesto.

Anche tutte le questioni affrontate nella corposa sentenza penale sul caso Cucchi non possono essere affrontate trattate in questo breve scritto. Ma vediamone alcuni.

La Corte di Assise di Roma, sulla base delle condivise conclusioni del collegio peritale nominato, ha ritenuto di attribuire la causa della morte del sig. Cucchi ad una diagnosi clinica errata e ad una conseguente terapia inadeguata.

Trattandosi di aspetti di stretta competenza medica, la Corte ha ritenuto responsabili del decesso i medici implicati nell’assistenza, incluso il direttore della struttura, escludendo, nel contempo, l’esistenza di profili di colpa rilevanti nell’accaduto a carico dei tre infermieri imputati.

Si sarebbe trattato (il condizionale è d’obbligo perché, come nel caso relativo al sig. Mastrogiovanni, siamo in presenza di una sentenza di primo grado, ancora non definitiva) di un”normale” omicidio colposo (ex art. 589 c.p.) dovuto ad una sottovalutazione dello stato di magrezza presentato dal sig. Cucchi all’atto del ricovero e del notevole dimagrimento che ha interessato durante il ricovero il paziente che, quindi, sarebbe deceduto per una grave deficienza di alimenti e di liquidi.

Se questo è vero, si potrebbe comprendere la ragione giuridica per la quale sono stati condannati i medici cui competeva, in via esclusiva, di formulare una corretta diagnosi sul piano clinico e di prescrivere una giusta terapia e non gli infermieri dai quali non può essere pretesa la stessa perizia al riguardo e che, comunque, non avrebbero “autonomia nella gestione terapeutica del paziente”, come precisato nella motivazione della sentenza.

Non può, comunque, essere sottovalutato il passaggio della motivazione laddove (vedi pag. 128) si parla di “sospetta confusione attestata dalla documentazione clinica in atti”, con riferimento ai “piccoli rombi disegnati sulla cartella infermieristica”, ognuno dei quali “avrebbe dovuto attestare il numero dei bicchieri d’acqua effettivamente bevuti” dal paziente.

Questo passaggio della motivazione va letto insieme a quello di cui a pag. 110 ove si descrive la tenuta della cartella clinica e si parla di “alcune parti palesemente carenti” con particolare riferimento alla registrazione non sempre puntuale della temperatura corporea e alla “confusa registrazione della diuresi”.
Sono passaggi su cui riflettere, per ricordare l’importanza della corretta tenuta della documentazione relativa all’assistenza infermieristica, sia ai fini della tutela della salute al paziente, sia ai fini documentali e giudiziari.

Una maggiore attenzione in questo caso, per non incorrere in “omissioni” da parte degli infermieri, alla registrazione di alcuni parametri e alla diminuzione del peso corporeo (circostanza quest’ultima la cui reale esistenza è stata, peraltro, molto discussa tra i periti in dibattimento, anche all’esito delle testimonianze acquisite al riguardo) forse avrebbe potuto evidenziare il continuo dimagrimento del paziente anche agli occhi non sempre attenti dei medici.
 
Giovanni Muttillo
CTU Tribunale di Milano
Presidente Collegio IPASVI Milano-Lodi-Monza e Brianza


03 ottobre 2013
© Riproduzione riservata

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