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Cardiologia. Di Biase: “No all’ospedale per intensità di cure”


Per il presidente della Sic è meglio mantenere l’attuale organizzazione grazie alla quale la mortalità per infarto è passata dal 14 al 4% negli ultimi 15-20 anni. Questi ed altri i temi al centro del 74° Congresso della Società Italiana di Cardiologia che si è aperto oggi a Roma.

13 DIC - “Siamo contrari all’Ospedale per intensità di cure e vogliamo che venga mantenuta l’attuale organizzazione che ha dato risultati eccellenti. La mortalità per infarto si è ridotta passando dal 14 per cento all’attuale 4 per cento, negli ultimi 15-20 anni. Con il nuovo sistema dell’ospedale per intensità di cure che in pratica azzera i reparti di cardiologia, non vi sono dati che possano garantire la qualità dell’assistenza all’infartuato e quindi potremo rischiare di ridurre i risultati raggiunti”.
 
È quanto ha dichiarato a Quotidiano Sanità Matteo Di Biase, Presidente della Società Italiana di Cardiologia (Sic), in occasione dell’apertura del loro 74° Congresso organizzato a Roma dal 14 al 16 dicembre. Un congresso che vede la partecipazione di 2.700 congressisti, letture magistrali, simposi congiunti con altre Società Scientifiche anche internazionali e nel corso del quale saranno affrontati temi estremamente attuali legati agli ultimi studi sulle malattie cardiovascolari. Fra questi, in particolare, emergono il tema dell’impatto ambientale sul rischio cardiovascolare e l’eco non ancora spenta delle recenti polemiche sull’impiego delle statine in prevenzione primaria, scaturite in occasione dell’ultima edizione del congresso dell’American Heart Association.
 
I costi dell'infarto. In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono il 30-35% di tutte le cause di mortalità superando di gran lunga i tumori ed è sempre lui l’infarto, il numero uno per incidenza e mortalità. Ogni anno nel nostro Paese si verificano 80mila infarti e circa 20-30 mila reinfarti con una mortalità ospedaliera, che se pur migliorata è del 4%, circa 4mila decessi e di molto superiore quella non ospedaliera. Rilevanti i costi,1 miliardo di euro l’anno per l’infarto,1.4 per lo compenso cardiaco.
 
Uno studio effettuato dall’Università Bicocca di Milano ha dimostrato che in Lombardia il costo medio mensile per paziente infartuato, nel periodo osservazionale è di 780 euro di questi il 78% è a carico dell’ospedalizzazione, il 14% per le terapie farmaceutiche, l’8% per i controlli. Preoccupa lo scompenso cardiaco considerato una vera epidemia, tanto da costituire la prima causa di ospedalizzazione negli over 65.
 
“Nei paesi afferenti la Società Europea di Cardiologia – ha sottolineato Marco Metra associato di cardiologia all’Università di Brescia – i ricoveri ospedalieri sono circa un milione l’anno con una incidenza di riospedalizzazione che è del 30% l’anno e di mortalità di circa il 15% e con una spesa che si aggira sul 2/3 per cento dell’intera spesa sanitaria globale.”
 
 
L’impiego delle statine. Al centro del dibattito congressuale ci sono poi le statine sulle quale non  si è ancora spento l’eco sulle polemiche innescate dalla pubblicazione delle nuove linee guida dell'American Heart Association e dell'American College of Cardiology relative al loro impiego in prevenzione primaria.
“È un tema di grande attualità – ha affermato Pasquale Perrone Filardi, dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli – perché è stato proposto di allargare l’impiego delle statine anche in soggetti con un rischio fino ad oggi considerato basso, con un possibile rischio di un eccesso di prescrizione del farmaco”.
 
A tale proposito sono stati presentati i risultati del suo ultimo studio sugli effetti delle statine per il trattamento del colesterolo cattivo. Si tratta di una meta-analisi condotta su 25mila pazienti che ha dimostrato come l’impiego di questi farmaci in soggetti di età superiore i 65 anni senza patologia cardiaca anche se in presenza di un fattore di rischio come il diabete o l’ipertensione, riduce del 39% gli infarti e del 24% circa l’ictus cerebrale.
 
Lo smog fa male al cuore. Uno studio dell’Università di Brescia dimostra la correlazione tra inquinamento ambientale e rischio cardiovascolare. “Lo studio – ha detto la responsabile della ricerca Savina Nodari – ha evidenziato come per ogni aumento di 10 microgrammi di Pm10 vi è un aumento del 3% dei ricoveri per eventi cardiovascolari come le sindromi coronariche, l’insufficienza cardiaca, la fibrillazione atriale e le aritmie”.
 
E proprio per sensibilizzare sulle cause dell’insufficienza cardiaca, patologia ad altissima incidenza, è nata “Anemia Alliance”, piattaforma indipendente per promuovere la conoscenza tra gli operatori sanitari e non solo, dell’importanza delle anemie che sono frequentemente associate a molte malattie tra cui quelle cardiache. Uno studio osservazionale svolto in tre centri cardiologici del Lazio, coordinato da Francesco Fedele, Direttore del Dipartimento Malattie Cardiovascolari del Policlinico Umberto I di Roma, ha mostrato come nei pazienti ricoverati per insufficienza cardiaca che presentavano anemia, solo in un terzo dei casi si è indagata la possibile causa dell’anemia stessa e soltanto la metà dei pazienti ha ricevuto la terapia a base di ferro che è il trattamento standard.
 
Come ha spiegato Robin Foà, Direttore dell’Istituto di Ematologia dell’Università Sapienza di Roma: “L’anemia colpisce nel mondo 1.62miliardi di persone in particolare bambini e donne in età fertile e la carenza di ferro è responsabile del 50% di tutte le anemie. I pazienti anemici hanno una cattiva qualità di vita, predisposizione alle infezioni, malattie renali croniche”.

13 dicembre 2013
© Riproduzione riservata

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