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Fisioterapisti. Il lavoro piace, ma il 75% teme il futuro e vuole l’Ordine. L'indagine Aifi


In 7 su 10 si dicono soddisfatti del proprio lavoro e lo consigliano alle nuove generazioni. Ma ai fisioterapisti non piace come il loro profilo viene gestito dalla politica e chiedono maggiore attenzione per poter competere al meglio e fornire servizi migliori ai pazienti. Chiesta anche più collaborazione alle altre professioni mediche e sanitarie.

06 GIU - Fisioterapisti italiani soddisfatti del proprio lavoro, ma non di come viene gestita, a livello politico e istituzionale, la loro professione. Per questo il futuro preoccupa un po’. Al centro dell’attenzione i mutamenti del profilo sociale e culturale del fisioterapista, i paradigmi scientifici, le relazioni con le altre professioni mediche e sanitarie, le problematiche occupazionali. Questi, in sintesi, i risultati della prima indagine nazionale sulla figura del fisioterapista in Italia lanciata dall’Associazione Italiana Fisioterapisti (Aifi) e che sarà presentata domani, in occasione del 55° anniversario della fondazione dell’associazione.

I numeri parlano chiaro: 7 fisioterapisti su 10 sono soddisfatti del loro lavoro e lo consiglierebbero ai giovani. Oltre due terzi investono in formazione e vorrebbero percorsi formativi più approfonditi e specializzati. Ma non sono soddisfatti per come viene gestita, a livello politico e istituzionale, la loro professione. Il 75% mette come prioritario l’ottenimento di un vero Ordine professionale e vorrebbe una tutela contro l’abusivismo, ma molti puntano anche a una definizione europea comune del fisioterapista e allo sviluppo scientifico della professione.

“I professionisti che servono oggi, ed ancor di più quelli che dovranno reggere il confronto con le sfide di domani, devono avere un livello di preparazione alto e sempre più specifico”, commenta Antonio Bortone, presidente dell’Aifi. “Vi è la necessità – aggiunge - di confrontarsi con contesti di salute molto più complessi e profondamente cambiati rispetto a quelli di vent’anni fa quando si è avviata la formazione universitaria triennale. Il fisioterapista deve aver coscienza che col suo operare può e deve dare un contributo all’accrescimento del sapere riabilitativo e ad una migliore organizzazione dei servizi offerti al cittadino. Il fisioterapista con una cultura bio-psico-sociale, è tenuto ad avere una visione integrata dei problemi di salute della persona, con una formazione orientata alla comunità, al territorio, alla prevenzione della malattia ed alla promozione della salute, con un risvolto ‘umanistico’ e allo stesso tempo un orientamento all’appropriatezza clinica ed al corretto uso delle risorse economiche disponibili”.

“La nostra indagine sociologica – ha proseguito il presidente dell’Aifi - ha messo in risalto proprio questo nuovo sistema, nonché diversi contesti, scenari e prospettive future. In due punti: rispondere in maniera più adeguata alle attuali esigenze di cura e salute, centrate soprattutto sulla persona considerata nella sua globalità, inserita nel contesto sociale; riprogrammare la formazione, intesa come il primo elevato segmento di un'educazione che, dovendo durare nel tempo, fornisce conoscenze che lo studente acquisisce in questa fase dando giusta importanza all’autoapprendimento, alle esperienze negli ambiti sanitari ospedalieri e nel territorio, all’epidemiologia, per lo sviluppo del ragionamento clinico e della cultura della prevenzione”.

“La Ricerca – spiega Marco Ingrosso, direttore del “Laboratorio Paracelso - Studi sociali sulla salute, la cura e il benessere sociale” dell’Università di Ferrara, che ha condotto la ricerca – si compone di quattro parti fra loro coordinate. Un quadro storico, l’analisi della professione, un’indagine su questionari on line e un’analisi di casi specifici. Nel suo complesso questo lavoro evidenzia, da un lato, una serie di mutamenti di fondo del profilo sociale e culturale dei fisioterapisti italiani e, dall’altro, mette in luce i punti di forza della professione (in particolare il rapporto stretto coi pazienti, l’interesse per la formazione, la grande motivazione al lavoro) in questa travagliata epoca societaria. Essa chiarisce una serie di problemi e dilemmi che si affacciano alla professione in questa fase. In particolare la volontà di combinare scientificità, capacità relazionale, visione olistica del corpo; la necessità che la rivendicazione di autonomia sappia raccordarsi con le esigenze della cooperazione; l’attesa di un ridisegno e di un miglioramento della formazione di base; lo sviluppo di forme contrattuali più stabili e che preservino l’autonomia della professione. Queste alcune indicazioni d’azione nella prospettiva di sviluppare il potenziale del gruppo professionale, nonché il ruolo di guida dell’Aifi nel prossimo periodo”.

Nella prima parte viene presentato il quadro storico, normativo, formativo e organizzativo entro cui si definisce questa professione sanitaria anche in ambito associativo. La seconda parte analizza la condizione della professione in Italia attraverso interviste semi-strutturate e focus-group rivolti alla dirigenza regionale e nazionale dell’Aifi. Ma è la terza parte quella che presenta e discute i risultati di un’indagine campionaria condotta attraverso questionari strutturati somministrati on line ad un numero consistente e significativo (260) di fisioterapisti in servizio attivo. Essa tocca i principali temi già affrontati nella seconda parte, evidenziando differenze culturali, di orientamento, di posizione lavorativa, di età, di formazione e genere che attraversano questo gruppo professionale.

“L’indagine – continua Ingrosso – raccoglie, accanto a dati fattuali che disegnano la nuova composizione di genere, età e occupazione della professione, le opinioni e valutazioni degli appartenenti alla categoria su diversi temi centrali quali: i percorsi formativi attuali e attesi, le prospettive occupazionali, le condizioni di lavoro, le percezioni relative all’identità, al riconoscimento, alle relazioni con le altre categorie sanitarie e con i pazienti”.

“Dai dati – osserva Bortone – emerge che l’identità operativa (ossia le competenze possedute) è piuttosto consensuale e condivisa nella categoria (85-90%), ma, oltre alla sofferenza per l’identità formale non conclusa (ossia l’Ordine), si assiste ad una certa differenziazione sui passi da fare per un completamento. Uno dei punti dolenti è quello del riconoscimento: si ritiene che questo derivi soprattutto dai pazienti, ma sia limitato (in termini di conoscenza e apprezzamento) soprattutto da parte dei medici e delle Direzioni aziendali. Di ciò soffrono anche i rapporti con le categorie sanitarie e mediche del settore riabilitativo, che sono mediamente discreti (variabili da situazione e situazione) ma che, nel complesso si vorrebbero migliori. La crisi occupazionale e il lavoro precario rischiano di minare i livelli di autonomia raggiunti, anche se si respira, come si è detto, una forte voglia di fare, approfondire, realizzare da parte di gran parte degli intervistati, nonostante le difficoltà della situazione economica e sociale attuale”.

06 giugno 2014
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