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Consenso informato. “Una pratica trasformativa della relazione medico paziente, non un obbligo”

di Stefano Ferracuti, Gabriele Mandarelli

Spesso il consenso è percepito dai medici come un impedimento e proposto ai pazienti come una formalità amministrativa. In altri casi, purtroppo non infrequenti, come un approccio da utilizzare in un’ottica di medicina difensiva. Ma è necessaria sul piano giuridico e soprattutto nella dimensione relazionale medico-paziente.

24 LUG - Sul consenso informato si è detto moltissimo, al punto che è in molte situazioni cliniche e chirurgiche si provvede a far firmare un gran numero di carte al paziente in momenti vari dell’inter diagnostico terapeutico. Il Codice Deontologico ribadisce che è un atto strettamente medico. In realtà, spesso, si ha l’impressione che vi sia una riflessione insufficiente su questo tema, nonostante la ridondanza del concetto in ogni ambito medico e l’affermazione che è presupposto di ogni atto medico.
 
Si potrebbe immaginare, usando una metafora, che il consenso informato stia alla pratica medica così come gli atomi stanno alla materia. Così come accade per la materia l’interazione tra elementi e composti consente di raggiungere gradi di complessità elevatissimi, anche se a volte instabili, anche in diversi settori della moderna medicina e chirurgia si possono avere situazioni di una complessità estrema, tuttavia un vizio alla base di tali interazioni può condizionarne significativamente l’esito e anche il senso della stessa procedura.
 
Molto spesso il consenso è percepito sia dai medici come un impedimento e proposto ai pazienti come una formalità amministrativa da sbrigare prima di potere attuare procedure più importanti. In altri casi, purtroppo non infrequenti, il consenso informato è percepito dal medico come un approccio da utilizzare, in un’ottica di medicina difensiva, per limitare il rischio di contenzioso ove le procedure sanitarie dovessero presentare complicanze. Questo tipo di mentalità, ove attuata, non considera la possibilità che le fasi di acquisizione del consenso costituiscano al contrario un momento di compartecipazione tra medico e paziente, in grado di modificare profondamente la natura del rapporto terapeutico.
 
La condizione di un paziente che sia consapevolmente informato è certamente necessaria sul piano giuridico, essendo il consenso il presupposto alla liceità dell’atto medico sul piano sia civile che penale e trovando lo stesso il più profondo presupposto in ambito costituzionale. Accanto all’aspetto giuridico, però, l’atto dell’informazione al paziente, quindi della raccolta del suo consenso o dissenso, costituisce al contempo un’occasione di straordinario potenziale, sia costruttivo che “distruttivo”, nella dimensione relazionale medico-paziente.
 
La natura dualistica del consenso, da un lato giuridica dall’altro psicologico-relazionale, porta con sé la possibilità di un vizio di entrambe le componenti. In termini generali, per essere valido, il consenso deve essere frutto di un processo decisionale volontario, scaturito a seguito di un’informazione che deve essere accurata e completa e fornita ad un paziente che possiede una valida capacità di decidere rispetto al proprio trattamento .
 
Con questa impostazione si è così ribaltato, con velocità esponenziale negli ultimi decenni, il classico approccio paternalistico del medico rispetto al paziente, ancorato allo straordinario dislivello tecnico ed anche, specie in passato, informativo, che ha storicamente separato curante e malato.
I cambiamenti di tipo sociologico e comunicativo legati anche alla presenza dapprima della televisione, ma soprattutto di internet, hanno condotto un progressivo avvicinamento del paziente “medio” alle tematiche di tipo medico-sanitario, il che ha alcuni riflessi anche sul consenso informato. Se, da un lato, la corretta informazione è di fondamentale importanza e utilità, si pensi alle campagne di sensibilizzazione e screening per patologie ad elevato impatto, dall’altro vi è il rischio di una informazione scorretta o parziale, che può allontanare i pazienti da approcci utili o doverosi, con tutte le conseguenze in termini di salute pubblica.
 
È esperienza sempre più comune tra i clinici confrontarsi con pazienti che hanno già un’idea precostituita relativa alla propria patologia, hanno letto enciclopedie on-line o consultato forum, e spesso anche i “bugiardini” di farmaci consigliati, magari, da conoscenti. Questo tipo di disinformazione rappresenta un rischio per i pazienti e rimanda all’importanza della discussione dei propri dubbi, delle proprie richieste e dei propri timori, con un medico con il quale si abbia una relazione tale da poter condividere questi aspetti. Parimenti l’esperienza di molti è che nelle corsie ospedaliere le spiegazioni e la richiesta di reale acquisizione del consenso arrivino quando la decisione è stata già ampiamente assunta dai medici e al paziente è chiesto, in realtà, solo un assenso. Se il processo di informazione, di valutazione e di scelta non è effettivamente condiviso con il medico, è difficile affermare che il processo decisionale possa definirsi realmente libero, quanto meno da pregiudizi che possono allontanare da scelte terapeutiche valide o fuorviare verso scelte scientificamente poco motivate.
 
Purtroppo, a complicare la questione, non vi sono solamente i pregiudizi dei pazienti ma, spesso, anche quelli dei medici. Non è infrequente confrontarsi con sanitari che omettono informazioni, anche di rilievo, su potenziali problematiche di una data terapia, o di una diagnosi dal forte impatto emozionale, magari in perfetta buona fede essendo però animati da un furor curandi.
 
Un’ulteriore problematica di rilievo risiede nella frequenza di problematiche cognitive, emozionali e mentali che possono comportare alterazioni nella capacità di decidere dei pazienti. Un’evidenza tendenzialmente sottovalutata in contesti medici è che esiste una quota significativa di pazienti incapaci di prestare un valido consenso, ossia di decidere consapevolmente rispetto alle scelte terapeutiche che li riguardano. Un paziente capace deve comprendere, compatibilmente con il proprio livello culturale, le principali caratteristiche della diagnosi posta, nonché dei rischi e benefici delle cure proposte e delle eventuali alternative. Deve essere in grado di trasferire quelle informazioni alla propria persona e di ragionare in termini logico-deduttivi su quali possano essere i benefici previsti, ed anche i limiti; infine deve essere in grado di esprimere una scelta chiara e non ambivalente.
 
Molti pazienti non possiedono tutte queste caratteristiche, ovvero sono in grado di raggiungerle solamente a seguito di ripetute spiegazioni da parte del medico. La velocità associata alla moderna medicina spesso costringe ad omettere l’accuratezza che si richiede in questo tipo di procedure. Vi sono inoltre ampie popolazioni di pazienti a rischio di incapacità, a riguardo si considerino i pazienti affetti da disturbi mentali o neurologici. Al di là di tali categorie di pazienti va peraltro considerata la significativa frequenza con la quale, in setting di tipo medico, si presenta il rischio di incapacità decisionale. Diverse evidenze suggeriscono come tale rischio sia spesso sottovalutato dai clinici il che espone a problematiche di tipo etico ed, eventualmente, legale.
 
Conosciamo bene le reazioni a queste riflessioni. I medici spesso si risentono perché percepiscono l’acquisizione del consenso informato come una limitazione e l’accettano solo per via dell’aspetto di medicina difensiva. I pazienti, spesso, temono che chiedere informazioni al medico sia inopportuno, per cui acquisiscono il parere, poi, colti dai normali dubbi che ogni essere umano ha di fronte ad una malattia o ad un intervento, assumono informazioni da fonti disparate, confondendosi, sviluppando risentimento, perdendo tempo spesso invece prezioso.
 
Quello che manca, e che andrebbe invece sviluppata, è una effettiva cultura del consenso informato come pratica trasformativa della relazione medico paziente, e non come obbligo per adempiere all’ennesimo dovere di un paese burocratizzato e sclerotico. La pratica del consenso informato è una pratica di informazione, miglioramento dei rapporti personali e professionali e sviluppo della libertà. In questo senso è un valore positivo con una etica profondamente rispettosa della persona.

24 luglio 2014
© Riproduzione riservata

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