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L'Open Data come valore per la salute dei cittadini. Dalla convention di Washington alla Città della Scienza di Napoli

di Arabella Festa

I dati vanno sempre valutati criticamente, conoscendo bene anche lo strumento di osservazione. E le istituzioni dovrebbero offrire la possibilità di rielaborarli autonomamente, ma ci vorrebbe una strategia comune (che superi la burocratizzazione), ancora lontana.

19 NOV - Non importa che i dati siano accessibili ma che esista la possibilità di riutilizzarli accrescendone il valore. Questa una delle affermazioni più qualificanti di John Wilbanks alla Open Conference di Washington che si è appena conclusa. Ad ascoltare uno dei più stimati protagonisti dell’open access c’erano alcune centinaia di ricercatori di ogni parte del mondo. Fortunatamente, di questi argomenti non si discute solo al di là dell’oceano: nell’ambito del XXXVIII Congresso dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, alla Città della Scienza di Napoli, un gruppo di esperti si è confrontato sull’accessibilità dei dati nel corso della Sessione Alessandro Liberati: L’epidemiologia 2.0: il dato è tratto?

La partecipazione di un editore (Luca De Fiore), di una filosofa (Elena Casetta, Università di Torino) e di un epidemiologo (Carlo Perucci), insieme all’intervento di Enrico Giovannini (Università di Roma Tor Vergata, ex- presidente dell’ISTAT ed ex-Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Letta) ha permesso di cogliere la complessità dell’argomento trattato. Una problematicità messa in luce in apertura da Laura Amato (Dipartimento di Epidemiologia-SSR del Lazio), che non ha dubbi sul fatto che i dati di ricerca debbano essere accessibili ai ricercatori, mentre ha delle perplessità sull’accessibilità dei dati grezzi a pazienti e stakeholder. Come conciliare, si chiede Amato, trasparenza dei dati e corretta comunicazione, indispensabile per favorire decisioni consapevoli?

Luca De Fiore ha invitato ad aderire alla campagna Alltrials per l’accessibilità dei dati contenuti nei Clinical Study Reports depositati presso le agenzie regolatorie e ha ricordato che “la domanda per gli open data nasce da istanze etiche. La openness è dovuta perché la trasparenza è un valore di-per-sé”. Ma come evitare gli eventuali effetti indesiderati? Il rischio è che, per esempio, “i ricercatori e i clinici – preoccupati dalla trasparenza – possano finire col pensare più al dato pubblicato che al miglior esito delle proprie azioni.” Come superare gli ostacoli creati dalla diverse legislazioni, in materia di dati, di agenzie e paesi diversi?

Sono tutte questioni aperte, come lo sono quelle evidenziate da Carlo Perucci, che è stato direttore scientifico del Programma Nazionale Esiti, una importante iniziativa a favore degli open data. Nel suo intervento Perucci ricorda il caso delle diagnosi di “posizione anomala del feto” (fortemente associata al taglio cesareo) denunciato dall’Agenas, che in alcune strutture raggiungeva valori superiori al 20%, a fronte di una media nazionale dell’8%, e che ha fatto sorgere “il sospetto di una utilizzazione opportunistica di questa codifica, non basata su reali condizioni cliniche”. Attenzione, dunque: i dati vanno sempre valutati criticamente, conoscendo bene anche lo strumento di osservazione. E le istituzioni dovrebbero offrire la possibilità di rielaborarli autonomamente… ma ci vorrebbe una strategia comune (che superi la burocratizzazione), ancora lontana.

Un punto di vista prezioso è stato quello di Enrico Giovannini, economista e statistico, autore di Scegliere il futuro. Conoscenza e politica al tempo dei Big Data (il Mulino, 2014): la sfida è trasformare l’informazione in conoscenza. Purtroppo in Italia manca una diffusa cultura matematica e statistica, e non è facile per i non esperti riuscire a capire che cosa i dati stanno dicendo, ma “senza un minimo di conoscenza su come si fa a nuotare in quello che è chiamato il diluvio dei dati, visto che i dati sommergono la nostra vita e ci circondano continuamente, noi rischiamo di essere cittadini di serie B”. (il video con una sintesi della relazione e la versione completa).

“I problemi che sono emersi in tutti gli interventi della mattinata sono gli stessi e sono fondamentalmente filosofici; sono temi di cui, da un lato la filosofia della scienza si è occupata dai primordi, dall’altro l’ontologia sociale sta iniziando a occuparsi”, ci ha detto Elena Casetta, alla quale abbiamo chiesto qualche riflessione conclusiva. “Si pensa che i dati, quando vengono raccolti, siano dati puri. Eppure, all’interno della filosofia della scienza c’è stato e c’è un grande dibattito sul ruolo dell’osservatore nel momento in cui raccoglie i dati. C’era chi diceva che i dati sono sempre carichi di teoria: non è possibile raccogliere un dato senza aver già selezionato in qualche modo che cosa raccogliere, e come raccogliere.

Un altro tema molto importante emerso dalle relazioni è la questione della verità, intesa come adeguatezza del dato rispetto a una realtà che il dato dovrebbe esprimere: un tema filosofico, quello della verità, di lunga data. Ci sono anche problemi di ordine più sociale ed etico: è giusto che i dati siano accessibili a tutti? Quali competenze abbiamo per interpretare i dati? Pensiamo ad esempio ai dati epidemiologici, dei quali si è parlato in questo contesto. Nel momento in cui poniamo un dato fuorviante per i ’non-esperti‘ uscisse dalla comunità scientifica diventando accessibile a tutti tramite la rete, le reazioni sarebbero difficili da controllare, fino alla possibilità che si generino vere e proprie reazioni di panico".

Nel suo intervento Casetta ha cercato di mostrare come la filosofia, in particolare l’ontologia sociale, e la teoria della documentalità, proposta da Maurizio Ferraris, possano fornire un contributo: “un contributo nel ripensare il web, in particolare il web 2.0, perché solamente capendo la natura peculiare dei dati del web 2.0 possiamo, in qualche modo, riuscire a maneggiarli".

Arabella Festa (Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane)
 


19 novembre 2014
© Riproduzione riservata

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