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Psichiatria. Giusto: “Giù le mani dalla Basaglia”


La legge 180 è moderna, va solo applicata. È questo il parere di Giovanni Giusto, presidente della Fenascop, la Federazione nazionale strutture comunitarie psicosocioterapeutiche, che invita i colleghi a fare autocritica nella presa in cura delle malattie mentali gravi.

21 GEN - È un mondo dalle mille sfaccettature quello della psichiatria. Un settore complesso e difficile che più volte ha mostrato i suoi lati deboli. Pensiamo agli ospedali psichiatrici giudiziari. Un caso estremo che ha però messo in luce le difficoltà del sistema assistenziale. Di certo la psichiatrica reclama un’assistenza sicura, e sono attualmente molte le proposte di legge in discussione in Parlamento che puntano a rivisitare la legge 180 del 1978, pietra miliare del nostro sistema normativo. Su questi temi e altro ancora Quotidiano Sanità si è confrontato con Giovanni Giusto presidente della Federazione nazionale strutture comunitarie psicosocioterapeutiche (Fenascop). Un’associazione che riunisce strutture residenziali e semiresidenziali, sia private che pubbliche, presenti su tutto il territorio nazionale.
 
Dottor Giusto, si parla da tempo di riformare la legge Basaglia. Cosa ne pensa?
Non è una legge da rivedere, ma da applicare. È una legge moderna, tra quelle che ha suscitato una grande attenzione a livello mondiale. Non dimentichiamo però che, in quanto legge quadro,  ha bisogno di essere riempita di contenuti. Di essere applicata sul piano dei principi realizzando strutture e percorsi di cura adeguati al bisogno della malattia mentale grave. La 180 è una legge propositiva. Che non impedisce di agire, anzi. Tant’è che nelle Regioni dove è stata applicata in maniera seria sono stati raggiunti importanti risultati. Penso in particolare a quelle Regioni, dove sono stati attivati i servizi territoriali, dove l’assistenza domiciliare residenziale e semi residenziale funziona realmente.
Quindi?
Quello che va rivisto è l’atteggiamento dei professionisti. Dovrebbero fare una seria autocritica sulla voglia di prendersi cura e farsi carico dei problemi psichiatrici legati a malattie mentali gravi. Non stiamo parlando di depressione o di stati ansiosi, di cui soffre il 20% della popolazione, ma di patologie come la schizofrenia, di psicosi maniacodepressive, di gravi forme di disturbi di personalità borderline. Certo, anche se  la mia critica è rivolta in primis alla nostra categoria, noi non siamo gli unici protagonisti del sistema di cure, ritengo che anche le istituzioni siano responsabili del mancato raggiungimento degli obiettivi.
Lei rappresenta le comunità terapeutiche, sono realmente una risposta valida alle necessità dei pazienti?
Attualmente sono la risposta più evoluta al bisogno del paziente psichiatrico grave. Volendo sintetizzare i principi della comunità terapeutica, come ha indicato Raperport nel 1960, bisogna parlare di democratization, ossia l’equa condivisione del potere decisionale; permissivness, ovvero il grado di tolleranza possibile; communalism, cioè lo stile confidenziale, la condivisione di spazio e tempo, la comunicazione circolare e aperta; infine di “reality confrontation” ovvero la disponibilità a confrontarsi sui reciproci comportamenti. Il metodo che portiamo avanti consiste in una convivenza all’interno di strutture piccole (massimo 20 posti) in cui si condividono con i pazienti tempi e spazi che vengono ricondotti, attraverso una psicoterapia residenziale, alla normalità. Il tempo di degenza varia da un minimo di sei mesi ad un massimo di tre anni. Una delle criticità è che le comunità terapeutiche presentano una grande variabilità tra Regione e Regione. A volte anche nell’ambito della stessa realtà locale. Una differenza legata al grado di evoluzione, o meno, dell’assistenza psichiatrica locale e alla rete dei servizi dedicati.
Un tema di grande attualità è quello degli ospedali psichiatrici giudiziari. La commissione parlamentare d’inchiesta del Senato ha messo in luce situazioni estremamente critiche. Qual è il suo parere?
È un quadro preoccupante. Gli ospedali psichiatrici giudiziari patiscono una grande contraddizione: da un lato sono sede di cura, dall’altro luogo di detenzione dove trattenere persone individuate come socialmente pericolose. A questo si aggiungono le oggettive difficoltà nel gestire un processo terapeutico all’interno di strutture che fino a poco tempo fa erano di appannaggio delle istituzioni giudiziarie. 
Quindi quali sono le maglie deboli del sistema?
Principalmente due. Innanzitutto ritengo che il passaggio del testimone dal ministero di Giustizia a quello della Sanità sia stato mal gestito. Le Asl non erano pronte a prendere in carico una tipologia di pazienti così complessa e con pochi terapeuti pronti a gestirli. C’è poi un problema legato alle risorse: il passaggio di competenze tra i due Ministeri doveva essere adeguatamente finanziato. Servono fondi per chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari e per consentire ai pazienti dimessi dagli Opg di tornare nella loro Asl di appartenenza; così come servono risorse per mandare avanti le comunità terapeutiche.
Ma la coperta economica più che corta è diventata cortissima. Quindi non si uscirà mai dell’impasse …
E allora affrontiamo il problema in un’ottica di ridistribuzione delle risorse. Stabiliamo delle priorità, evitiamo gli sprechi e investiamo quindi in situazioni limite come quella degli Opg dove il trattamento riservato ai ricoverati è disumano.
Le piace la soluzione ventilata dal senatore Marino di riconvertire i piccoli ospedali dismessi in strutture ad hoc per malati psichiatrici in stato di detenzione?
Sì. È una soluzione che funziona anche economicamente in quanto da un lato permetterebbe di recuperare strutture non adatte all’assistenza per acuti, dall’altro consentirebbe di umanizzare il trattamento per i pazienti psichiatrici e di centrarlo sull’aspetto sanitario anziché su quello detentivo. Non dimentichiamo, infatti, che gli Opg ospitano persone che non hanno compiuto delitti efferati. Spesso sono diseredati, pazienti fragili che hanno violato la legge e si sono trovati imprigionati in un circuito dal quale non sono più riusciti a uscire.
Quindi ben venga la possibilità di poter riconvertire alcuni dei piccoli ospedali dismessi o anche strutture di dimensioni più contenute per far sì che l’elemento ambiente possa essere effettivamente terapeutico. D’altro canto questo discorso è stato portato avanti anche quando sono stati chiusi i vecchi ospedali psichiatrici, accoglievano un numero esorbitante di pazienti, anche più di 1.500 e sono stati sostituiti con strutture con un massimo di trenta, quaranta persone. È solo una questione di buon senso.
Una delle criticità emerse dall’indagine della Commissione del Senato è quella della presa in carico dei pazienti dimissibili. Qualche suggerimento?
Bisognerebbe individuare il bisogno di ciascun ricoverato identificando dei percorsi possibili e utilizzando le risorse già esistenti sul territorio. In parte questo già funziona nelle strutture comunitarie psichiatriche dove ospitiamo pazienti dimessi dagli OPG. Certo, pensare a dimissioni di massa dall’oggi al domani è arduo;  anche se i colleghi che lavorano  in queste strutture, nonostante operino in condizioni difficili, ossia con poco personale e molti pazienti, stanno comunque portando avanti interventi mirati alle dimissioni. In conclusione sarebbe fondamentale fare un inventario delle strutture realmente disponibili a ospitare i pazienti individuando, come ho già detto, il loro bisogno clinico e assistenziale.
Per i suoi colleghi cosa auspica?
In queste strutture si respira il disagio dei pazienti, ma anche l’impotenza degli operatori. Ecco perché ritengo che gli ospedali psichiatrici debbano essere chiusi. Gli operatori dovrebbero poter mettere a disposizione la loro esperienza e vederla valorizzata.
 
E.M.
 

21 gennaio 2011
© Riproduzione riservata

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