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Il curioso doppio record italiano della denatalità e dei cesarei

di Fabrizio Gianfrate

Dopo Cipro siamo il paese che registra più parti cesarei in Europa. Dissonanza di opinioni sull’approccio al parto tra gli addetti del vecchio continente, come suggeriva lo studio pubblicato ieri di Euri Peristat? Senz’altro ma certi numeri dissonanti vanno letti anche con lenti economico-finanziarie e organizzative

10 MAR - “Tu, donna, partorirai con dolore”, tuonò apodittico il Padreterno mentre li cacciava dall’Eden, lei rossa in viso, in mano la mela appena morsa, lui confuso, la foglia di fico ancora calata. “Partorirai con dolore?”, beh, dipende. In Italia partorirai poco, e casomai col cesareo.
Già, perché il nostro Paese ha insieme il record OCSE di denatalità e quello EU dei cesarei (dopo Cipro). Dato quest’ultimo confermato ieri da Euro-Peristat in uno studio appena pubblicato sull’International Journal of Obstetrics and Gynaecology, come puntualmente riportato da QS.
 
Nel Belpaese è chirurgico quasi il 37% di tutti i parti, con punte del 60% in Campania e del 50% in Sicilia. Troppi? Sì, almeno secondo l’OMS, che pone l’asticella addirittura al 15%, assai più giù, quindi.
Insomma, facciamo meno figli di tutti ma li facciamo senza dolore, col cesareo (e con l’epidurale, presto nei LEA). Per fortuna, aggiungo. Ma con buona pace del suddetto anatema biblico. E proprio nel Paese della Chiesa di Roma. Che però è anche la città di Cesare dal quale la nascita chirurgica prende il nome, essendo a detta di Plinio (il Vecchio), il Divo Giulio nato appunto con l’aiuto del cerusico. Tant’è che da allora le antiche credenze popolari attribuivano a chi nasceva col taglio un futuro da re (“Kaiser” e “Zar” dallo stesso etimo).
 
Va da sé, nella scelta tra naturale e chirurgico comanda l’aspetto medico, il rapporto tra il rischio relativo delle due alternative, naturale o non, sulla sicurezza per mamma e nascituro, ovviamente quando non sussistano esigenze che obblighino all’una o all’altra opzione (plurigemellari, età avanzata della puerpera, ecc.). Ed è proprio sul disaccordo tra specialisti sulle scelte più adeguate, dice la pubblicazione di ieri, che origina in buona misura la variabilità riscontrata tra i diversi Paesi.
Ma certi numeri dissonanti vanno letti anche con lenti economico-finanziarie e organizzative. In una declinazione della nota teoria di Buchanan sui consumi sanitari trainati dalla loro offerta. Che è abbondante, per i cesarei, prestazione ospedaliera tra le più effettuate e a maggiore sovrapposizione tra pubblico e privato. Dove il contributo di quest’ultimo è determinante per quantità e qualità. Pagato di più per tariffe e DRG rispetto al “naturale”, elemento questo incentivante, e col vantaggio che consente una più puntuale programmabilità dell’esecuzione e quindi dell’erogazione della prestazione, con guadagno di efficienza e gestione.
 
Si tratta di una forma “fisiologica” di “moral hazard” che spinge alla prestazione più conveniente, pur restando nella corretta deontologia. Talora può degenerare nella patologia del malaffare, come nel caso classico dell’“upgrade” dei DRG stessi. E fino ai casi limite della cronaca, non pochissimi. Come la clamorosa azzuffatina di un paio di anni fa tra i due ginecologi, quello privato e quello dell’ospedale, davanti alla mamma che travagliava, col nascituro mezzo fuori che intanto virava dal rosa al viola (cosa da poco, si dirà, per quel policlinico di un’università che ha visto “baroni” sparati a lupara, traffico d’armi, pseudo massonerie, rettori sospesi, parentopoli…)
È necessario quindi gestire con particolare attenzione, come e più che per altre prestazioni, il rapporto tra privato e “terzo pagante”, ASL/Regione, al fine di tutelare, dopo i pazienti, gli operatori privati più corretti e onesti. Valgono in merito, come sempre, i principi della corretta efficienza tecnica e allocativa, pianificazione, gestione e soprattutto prevenzione delle commistioni d’interesse e continui controlli oggettivi, il più possibile spersonalizzati, cioè meno influenzabili dal singolo, una “governance” fatta con un sistema oggettivo di regole e controlli incrociati, “checks and balances”.
 
Perché non basta, come pur lodevolmente auspicato da più parti, affidarsi consolatoriamente a una desiderabile maggiore etica individuale. Sacrosanto appellarsi alla deontologia professionale e ai principi morali del singolo nei suoi comportamenti, ma è meglio non puntarci troppo, visti i tempi che corrono. È troppo rischioso. Perché, non scordiamocelo, in fondo siamo tutti nipotini di quei due disonesti che si sono fatti sfrattare dal Paradiso Terreste.
 
Fabrizio Gianfrate

10 marzo 2015
© Riproduzione riservata

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