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La lotta al dolore e l’importanza del ruolo dell’infermiere


Il Collegio Ipasvi di Firenze è in prima linea per riconoscere nel diritto a non soffrire un esempio di qualità di ogni servizio sanitario. L’occasione per focalizzarsi sul tema è stata data dall’ottava edizione delle cento città contro il dolore da cui è emerso che più di 5 mln di italiani che ne soffrono non sanno a chi rivolgersi.

12 OTT - L’ottava edizione delle cento città contro il dolore è stata l’occasione per riflettere sulla sofferenza di 13 milioni di italiani, il 40 per cento dei quali non è a conoscenza di centri specialistici ai quali rivolgersi per il trattamento del problema. Le persone colpite da dolore cronico, infatti, vivono in media in uno stato di sofferenza continua per più di 7 anni anche perché la conoscenza sulle cure è ancora scarsa. Numeri che evidenziano come sia necessario aumentare l’impegno per incrementare sia la consapevolezza dei cittadini sulla necessità di ottenere una cura che quella dei clinici nel riconoscere il dolore quale malattia a cui nessuno può sottrarre diagnosi e cura ad libitum.

“È importante – spiega Massimo Sottili, infermiere del servizio cure palliative domiciliari della Usl Toscana Centro – cambiare il paradigma culturale perché il dolore può e deve essere combattuto”.

Dal momento che non esiste un dolore più tollerabile di un altro, è necessario che la cultura della terapia del dolore si assesti in Italia quale elemento ordinario in ogni setting di cura. “Il compito dell’infermiere – precisa ancora Sottili – è proprio quello di verificare che le medicine siano assunte o che la terapia sia ancora adeguata, ma anche di aiutare i pazienti a riconoscere il dolore e ad affrontarlo”.

Il dolore dà voce, infatti, al rischio di un’insufficiente attenzione verso la gente che soffre e, al contempo, mostra una scarsità di qualità nei processi di umanizzazione dei servizi da parte del sistema sanitario nazionale.

“Ci sono ambienti – puntualizza Beatrice Sodini, infermiera che si occupa di terapia del dolore e di cure palliative all’ospedale Meyer – come gli ospedali pediatrici dove il dolore deve essere trattato in tutte le sue forme. Perché alla sofferenza fisica vera e propria si sommano l’ansia e la paura che scaturiscono nei bambini dal semplice ingresso in reparto”.

Dal momento che l’infermiere, nello svolgimento della sua attività professionale, si confronta continuamente con il dolore dei pazienti, un approccio cosciente e consapevole dell’intensità e della natura del dolore “può permettere di comprendere e tradurre lo stato di grave disagio in cui si trova il malato e, di conseguenza, di applicare i rimedi necessari per curarlo (farmacologici e non).

“Siccome non esistono limiti d’età alla percezione del dolore – spiega ancora Sodini – una corretta valutazione dello stesso non può prescindere dal riconoscere al genitore un ruolo prioritario. L’infermiere pediatrico deve, quindi, cercare la collaborazione della famiglia che deve essere anche resa partecipe delle procedure diagnostiche e terapeutiche da attuare”.

Ecco evidente come la figura dell’infermiere nella gestione del dolore richieda un’attenzione ed una sensibilità particolarmente spiccate. Anche perché, ancora oggi, malgrado leggi che sanciscono il diritto del cittadino alla cura del dolore, la sofferenza viene trattata in modo difforme, da regione a regione.
“Molta strada è stata fatta – puntualizza Sodini – ma molta ne rimane da fare. E anche se l’approccio terapeutico è esclusivo appannaggio del medico, nell’individuazione di una corretta e personalizzata strategia di trattamento del dolore, l’infermiere deve acquisire la piena consapevolezza che, anche in questo ambito, riveste un ruolo centrale”.

12 ottobre 2016
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