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Il caso San Camillo. La tragedia dell’aborto e di chi non vuol capire

di Sandro M.Viglino (Agite)

La decisione della direzione sanitaria dell’ospedale romano S. Camillo di bandire un concorso finalizzato all’assunzione di ginecologi non obiettori, opinabile in punta di diritto, risponde in modo pragmatico ad una realtà che è davanti a tutti ma che si finge di non vedere: il ricorso progressivo dei ginecologi italiani all’obiezione di coscienza che ha fatto sì che in non poche Regioni italiane essa abbia raggiunto l’80-90% degli specialisti ospedalieri

23 FEB - Ci sono questioni, evidentemente irrisolte, che ciclicamente tornano all’attenzione della società e ogni volta si riapre un defatigante dibattito tra chi vede la questione in un modo e chi nel modo opposto. Sono come quelle ferite che di tanto in tanto, sollecitate da qualche traumatismo, si riaprono e riprendono a spurgare. Così accade per l’aborto volontario.
 
Il 22 maggio 1978 (quasi quarant’anni fa) fu approvata una legge importante, che ha fatto onore al Parlamento italiano – la legge 194 – che ha definitivamente sottratto la tragedia dell’aborto volontario ai miasmi della clandestinità e lo ha portato alla luce del sole, alla luce della legalità, secondo una prassi tipica delle società civili e avanzate.
 
Tutto ciò non per sminuire il dramma cupo dell’anima prima che del corpo rappresentato dalla decisione di interrompere una gravidanza non voluta o comunque non possibile. Ma per sottolineare che, comunque la si pensi, non era più possibile accettare che le donne che si trovassero in quella condizione rischiassero di morire nella cucina di qualche mammana o nell’ambulatorio di qualche “cucchiaio d’oro” (che magari, dopo la legge, si è comodamente nascosto nell’obiezione di coscienza).
 
Chi è nato dopo quella data non può comprendere il clima di quegli anni, anni in cui era proibito persino prescrivere una pillola se il fine era quello contraccettivo.
 
La decisione della direzione sanitaria dell’ospedale romano S. Camillo di bandire un concorso finalizzato all’assunzione di ginecologi non obiettori, opinabile in punta di diritto, risponde in modo pragmatico ad una realtà che è davanti a tutti ma che si finge di non vedere: il ricorso progressivo dei ginecologi italiani all’obiezione di coscienza che ha fatto sì che in non poche Regioni italiane essa abbia raggiunto l’80-90% degli specialisti ospedalieri.
 
E a fronte di tutto ciò non si sottolinea mai abbastanza che grazie a quella legge il numero di interruzioni volontarie di gravidanza (IVG), rispetto ai primi anni di applicazione della 194, si è più che dimezzato, scendendo ampiamente sotto la soglia di 100.000 all’anno.
 
Non si tratta ora di aprire uno stucchevole quanto inutile dibattito sul sacrosanto diritto all’obiezione di coscienza che resta un diritto inalienabile per ciascuno di noi rispetto ad una qualsivoglia questione etica. Il problema sta nel fatto che in molti casi si è trattato e si tratta di obiezione di comodo, non sostenuta da convinzioni di carattere etico-religioso.
 
Non sono medici che esprimono un “giudizio morale sull’aborto” come sarebbe anche naturale ma professionisti che non si pongono neppure la necessità di individuare una “moralità della scelta abortiva”.
 
A nessun ginecologo, anche il più laico, piace diventare lo strumento tecnico tramite il quale si pone fine ad una vita che potrebbe proseguire. Tutti coloro che non si sono rifugiati nell’obiezione di coscienza conoscono il peso con cui si affronta questo atto medico e conoscono il dramma della donna che vi deve ricorrere.
 
Ma, laicamente, si sono prestati e si prestano con spirito di servizio e con grande rispetto nei confronti delle donne che hanno deciso di abortire, offrendo quelle condizioni di sicurezza e di conforto che il ruolo impone.
 
Il problema di fondo ancora irrisolto sta in quel carico di ipocrisia che ancora appesantisce qualunque libero pensiero in un Paese dove l’ipocrisia ha sempre fatto da padrona.
 
I detrattori della legge 194 sono stati sempre molto impegnati ad anteporre la difesa ad oltranza della "vita" (qualunque sia) ma non hanno mai profuso lo stesso impegno a sostenere politiche che mettessero al primo posto l’educazione alla sessualità e alla riproduzione attraverso, ad esempio, programmi di formazione nel corso della scuola dell’obbligo e/o nell’ambito dell’istruzione secondaria di II grado o politiche di sostegno sociale a quelle giovani madri che si trovano nell’impossibilità di portare avanti una gravidanza.
 
Eppure ci sono iniziative di buon senso e a basso costo che si potrebbero intraprendere e che molti ginecologi, a partire da quelli che operano nei Consultori familiari pubblici e privati, non si stancano di suggerire:
a) incentivare le iniziative di educazione/formazione alla sessualità, alla preservazione del patrimonio riproduttivo, alla genitorialità da parte dei Consultori familiari;
 
b) far crescere la cultura per una maternità responsabile, mediante l’incentivazione dell’offerta contraccettiva sostenendola con argomentazioni scientifiche anche attraverso campagne promosse e veicolate dai mass media;
 
 
c) promuovere momenti di confronto e di riflessione tra gli addetti ai lavori (medici di medicina generale, personale sanitario, specialisti ginecologi) e le rappresentanze delle donne, dei cittadini e della scuola;
 
d) sensibilizzare forze politiche, movimenti e associazioni sulla necessità di coinvolgere i tecnici (e in questo caso le donne) prima di assumere decisioni limitanti la libertà individuale anche quando riguarda il proprio corpo, come è successo con la legge 40/2004 sulla fecondazione assistita e ancora oggi più in generale sul biotestamento;
 
 
e) sostenere quelle politiche che non siano solo “giovanili” nel titolo ma realmente rivolte alla crescita culturale, affettiva e sociale delle fasce più giovani della popolazione che, per quanti sforzi faccia la scuola, sono sempre più abbandonate a se stesse, pagando per prime la dilagante crisi dell’istituzione “famiglia” mai così profonda come in questi anni.
 
E comunque vorrei concludere ricordando, a proposito dell’aborto, le recenti e coraggiose parole del Santo Padre espresse nella lettera apostolica “Misericordia et misera” specie laddove afferma “A tutti è offerta la possibilità di sperimentare la forza liberatrice del perdono”.
 
Sandro M. Viglino
Presidente nazionale Associazione Ginecologi Territoriali (A.GI.TE)

23 febbraio 2017
© Riproduzione riservata

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