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Cassazione. Linee guida ignorate, negligenza e imperizia: né la Balduzzi né la Gelli salvano l'anestesista condannata per omicidio colposo


Il nesso tra la negligenza del medico e la morte del paziente può sussistere anche se il decesso avviene quasi un mese dopo l’intervento. La Corte di Cassazione (sentenza 33770 dell'11 luglio 2017) respinge così  il ricorso di una dottoressa contro la condanna per omicidio colposo stabilita sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello, dopo la morte di una paziente. LA SENTENZA.

19 LUG - Né la legge 189/2012 (Balduzzi) né la 24/2017 (Gelli) sono state in grado di evitare l’imputazione di omicidio colposo per una anestesista che non ha controllato la corretta ossigenazione del paziente durante un intervento, ignorando proprio le raccomandazioni delle linee guida.
 
Il nesso tra la negligenza del medico e la morte del paziente deve considerarsi secondo i giudici provato anche se il decesso avviene quasi un mese dopo l’intervento. La Corte di Cassazione (quarta sezione penale, sentenza 33770 dell'11 luglio 2017) respinge così  il ricorso di una dottoressa contro la condanna per omicidio colposo stabilita sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello, dopo la morte di una paziente.
 
Il fatto
A fine 2009 una donna era stata sottoposta a un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale non a cielo aperto. Dopo l'operazione, la paziente è stata trasferita nel reparto di rianimazione, dove però è deceduta 26 giorni dopo per insufficienza cardiorespiratoria. Secondo la ricostruzione dei consulenti del Pubblico ministero, accolta dai giudici di merito, al termine dell'intervento chirurgico si era manifestata nella donna un'encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con progressivo peggioramento delle condizioni generali e conseguente decesso.
 
L'ischemia cerebrale è stata collegato a una carenza d'ossigeno generalizzata a livello cerebrale, provocata da una insufficienza respiratoria dovuta alla mala gestio delle vie aeree (ed in specie dell'apparato oro tracheale) da parte dell’anestesista che, secondo le linee guida, avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l'intervento, per evitare il pericolo, verificatosi, di ostruzione delle alte vie respiratorie.
 
La cattiva gestione delle vie aeree proseguita anche di fronte a segni clinici strumentali della carenza di ossigeno nel sangue durante l'intervento, determinava una condizione di prolungata ipossia, con danno cerebrale in una paziente che oltretutto era stata sottoposta a operazione chirurgica in sede nasale.
 
Le ragioni della condanna
La Cassazione spiega nella sentenza che la Corte distrettuale ha correttamente motivato il proprio convincimento, osservando che le conclusioni del consulente del P.M. si basavano su dati certi (esame necroscopico e autoptico) e giungevano, con “argomentazioni esenti da errori o vizi logici”, all'accertamento della causa del decesso per la prolungata ipossia provocata nella paziente dalla condotta dell’anestesista nel corso dell'intervento: “Condotta che i giudici di merito ricollegano non già all'impiego della cannula di Guedel, ma all'omesso costante controllo che le vie aeree fossero libere (controllo che, se fosse stato eseguito, non avrebbe determinato l'insorgere dell'ipossia) e al fatto che la carente ossigenazione della paziente è intervenuta, per un tempo giudicato comunque eccessivamente lungo, pur a fronte della segnalazione di tale condizione proveniente dal segnale di allarme del macchinario che controllava il livello di ossigeno del sangue”.
 
Non è inoltre non configurabile un rischio nuovo e incommensurabile, “del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria, cui la giurisprudenza annette valore interruttivo del rapporto di causalità”. La Cassazione ricorda una precedente sentenza in cui “la Corte ha evidenziato come l'"infezione nosocomiale" sia uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei raparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi è tutt'altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defedazione fisica dei pazienti”.
 
In questo quadro non ha alcun valore  la richiesta della difesa di inquadrare la condotta dell’anestesista nell'ambito della "colpa lieve", come stabilito dall'art. 3 della legge n. 189/2012, vigente all'epoca del fatto.
Per la Cassazione penale, infatti, “secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, la condotta dell'imputata è stata correttamente e motivatamente qualificata come caratterizzata da «grave negligenza»: ragione per la quale é stata disattesa la richiesta di applicazione dell'anzidetta disposizione di legge.
 
Né la condotta del medico risulterebbe in ogni caso aderente alle linee guida e/o alle buone pratiche, non solo sulla base della ricostruzione dei periti accolta dalla Corte di merito, ma neppure in base alle richieste della difesa. “Secondo la predetta disposizione – si legge nella sentenza -  solo il sanitario che "si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve". Di tal che in nessun caso potrebbe ricondursi il caso in esame nella fattispecie abrogativa de qua”.
 
La Cassazione ricorda infine che, in ogni caso, l'inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, e la (corretta) qualificazione della condotta della ricorrente è caratterizzata da "negligenza" piuttosto che da "imperizia" escludendo “anche la configurabilità dell'ipotesi di non punibilità del fatto prevista dal nuovo art. 590-sexies cod.pen. (introdotto dall'art. 6 della legge n. 24/2017), che oggi disciplina la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie in relazione alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose”.

19 luglio 2017
© Riproduzione riservata

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