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Continuità ed efficienza della cura. Ipasvi promuove incontro a Brescia


Garantire la continuità assistenziale dal macrocontesto istituzionale alla microrealtà di livello territoriale, attraverso modelli gestionali innovativi e flessibili, è l’oggetto del convegno organizzato dal Collegio Ipasvi di Brescia che si terrà, presso la Sala Convegni della Camera di Commercio, il 16 settembre. Saranno illustrati anche gli esiti di un progetto di ricerca qualitativa e multidisciplinare che pone al centro dell’attenzione la voce degli assistiti.

14 SET - Si terrà a Brescia, il prossimo 16 settembre, presso la Sala Conferenze della Camera di Commercio di Brescia il convegno Ricomporre la frammentazione nel prendersi cura: risultati di una indagine qualitativa sulla continuità fra ospedale e territorio. In quest’occasione saranno presentati i risultati del l’innovativo progetto di ricerca Storie di malattie e presa in carico: sviluppo di modelli organizzativi per la continuità della cura, avviato dallo Studio Aps e dai Collegi Ipasvi di Brescia e Milano nel novembre del 2015 e concluso un anno dopo.

Attraverso l’incontro ravvicinato con gli assistiti, i componenti del gruppo di ricerca hanno mirato a identificare gli aspetti che incidono negativamente sulla continuità dei processi curativi e assistenziali, spiega la presidente del Collegio Ipasvi di Brescia, Stefania Pace. “Processi che – soprattutto per le patologie croniche – prevedono sia il coinvolgimento di più enti (strutture sanitarie ospedaliere, poliambulatori che erogano prestazioni specialistiche, case di cura, …) e di molteplici figure professionali (medici, infermieri, operatori socio-sanitari, formatori, …), sia l’intervento dei cosiddetti caregivers – coloro che prestano assistenza a un familiare destinatario di cure e assistenza continuative. Per l’assistito non è facile orientarsi in un panorama così frammentario e puntellato di strutture che agiscono come realtà autoreferenziali e si relazionano fra loro in maniera non di rado conflittuale”.  

Per chi riceve le cure, inoltre, risulta complessa anche la comunicazione con gli esponenti di tali istituzioni, “tanto che una cattiva interazione tra gli assistiti da una parte e i professionisti della sanità dall’altra può determinare una diminuzione dell’efficienza del percorso di cura o, in alcuni casi, la sua interruzione”.

Date tali premesse, il progetto di ricerca ha inteso comprendere gli aspetti critici di questo rapporto, al fine di promuovere modelli culturali-organizzativi maggiormente rispondenti alle esigenze degli assistiti e orientati al miglioramento della qualità della loro vita e di quella dei familiari che li circondano. “Una più alta efficienza della gestione curativo-assistenziale – soprattutto nelle malattie croniche – si ripercuoterebbe positivamente anche sul tasso di occupazione femminile nazionale, e sulla asimmetria dei ruoli di genere, poiché oggi nel nostro Paese (e più in generale nell’area mediterranea) il carico assistenziale grava ancora per la maggior parte sulle donne”, spiega il Collegio Ipasvi di Brescia. Che aggiunge: “La questione è tutt’altro che marginale, e ci riguarda tutti, dato l’incremento della diffusione delle malattie croniche degenerative, legato all’invecchiamento della popolazione in Italia come in tutti i Paesi industrializzati”.

L’indagine ha interessato più soggetti istituzionali e socio-assistenziali (Consorzio Colibrì, Ipasvi Milano – Monza - Brianza, Ipasvi Brescia, Network Aprire e Siti Lombardia, Coop. Dolce, Studio Aps), avvalendosi del lavoro di più professionisti (medici, infermieri, psicosociologici, assistenti sociali, ingegneri), e di un nutrito gruppo di ricercatori: Claudia Sabatini, Erik Bertoletti, Miriam Magri, Loris Bonetti, Angela Di Giaimo, Chiara Pedercini, Fulvio Lonati, Paolo Peduzzi, Sara Saltarelli, Giovanna Ferretti e Francesco d’Angella.

“Attraverso un lavoro coordinato e altamente specializzato – illustra il Collegio bresciano degli infermieri -, questo team di ricerca ha sottolineato da una parte la necessità di abbandonare l’interpretazione oggettivante della malattia che appiattisce l’assistito su quest’ultima, e dall’altra quella di elaborare modelli culturali-organizzativi orientati a una lettura bio-psico-sociale della patologia. Il primo passo è stato quello di proporre a 12 assistiti, dislocati nel territorio di Milano, Brescia e Bologna, un’intervista vis-à-vis realizzata presso il loro domicilio. Un dialogo focalizzato, ‘profondo’, con l’obiettivo primario di lasciar affiorare non soltanto la soddisfazione dell’assistito rispetto alle cure ricevute, ma anche la storia della sua malattia in stretta connessione con quella della sua vita. A un percorso di cura si legano infatti episodi, investimenti ed emozioni che raccontano le relazioni dell’assistito e dei suoi familiari (una micro-realtà di cura e di vita) con il macro-contesto delle istituzioni che hanno in carico la persona”.

Tali focus interviews hanno consentito l’emergere di dati difficilmente reperibili in altro modo, portando in superficie situazioni di scollamento tra queste due realtà, difficoltà di tenuta dei percorsi assistenziali, e problemi di personalizzazione delle cure. “Pur a fronte dell’alta qualificazione delle risorse e dei professionisti messi a disposizione, si è riscontrata talora una totale mancanza di comunicazione tra la persona in cura e i suoi operatori di riferimento, talaltra l’abitudine di una comunicazione meramente prescrittiva che non spiega all’assistito le motivazioni alla base delle prescrizioni”, spiega l’Ipasvi di Brescia.

I dati raccolti hanno rivelato inoltre che il contesto familiare dell’assistito, diverso da caso a caso, può incidere sulla continuità della cura. “La famiglia può essere del tutto assente, o può essere presente in un modo non appropriato. Manca poi una comprensione adeguata del significato che la malattia assume per l’assistito. Essa non coincide con la diagnosi, ma con la relazione che ogni ricevente cure intrattiene con la malattia, e con l’impatto che essa provoca non soltanto sul contesto del suo vivere quotidiano, ma anche sul senso più profondo della sua identità di individuo”.

Per l’Ipasvi di Brescia “bisogna allora ripensare il sistema sanitario, orientandolo a un’integrazione di competenze tra i diversi professionisti della salute, e trasformando il carattere dispersivo degli enti socio-sanitari in una rete. Nell’ottica di un’assistenza sanitaria che punti alla prevenzione e renda l’assistito sicuro, sostenibile e resiliente alle crisi, dovrebbe essere implementato il cosiddetto Chronic care model, una struttura organizzativa che promuova una cura non soltanto reattiva ed erogata dai professionisti sanitari, ma anche proattiva e di autosostegno (self-care)”.

Allo stesso tempo “è necessario coinvolgere nella gestione assistenziale la comunità civica, e rendere operativa, accanto a quella del medico di base, la figura dell’infermiere di famiglia con la funzione di garantire continuità assistenziale”.
 
“Ed è proprio qui che si giocheranno i passi successivi – conclude il Presidente del Collegio Ipasvi Milano-Lodi-Monza e Brianza Giovanni Muttillo –. Il servizio dell’Infermiere di Famiglia rappresenta un modello innovativo del nuovo sistema sanitario lombardo: l’anello di congiunzione che potrà favorire la reale integrazione tra ospedale e territorio, nonché il ruolo proattivo, educativo dell’infermiere per favorire l’aderenza alla terapia nel rinnovato rapporto di fiducia tra operatore e assistito. Per questo stiamo lavorando attivamente come Collegi lombardi affinché la promozione e l’implementazione del Servizio dell’infermiere di famiglia possa divenire realtà in tutta la Regione. La previsione normativa con la legge Regionale di riordino del servizio socio-sanitario e lombardo, pone le basi del nuovo Servizio, come anche questa ricerca dimostra. Il lavoro dei Collegi, a tutela dei professionisti e soprattutto dei cittadini, potrà fare la differenza”.

14 settembre 2017
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