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È colpevole l’infermiere che non avvisa il medico del peggioramento del paziente. La Cassazione conferma condanna


La IV sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito che tra le due figure, medico e infermiere, deve esserci un rapporto di massima  collaborazione. L’infermiere deve vigilare sul decorso post-operatorio, proprio per consentire se necessario l’intervento del medico. E l’infermiere oggi va considerato non più “ausiliario del medico”, ma “professionista sanitario”. Se il paziente peggiora e l'infermiere non avvisa in tempo il medico è colpevole di un "errore clamoroso” che è costato la vita al paziente. LA SENTENZA

03 GEN - E’ penale la responsabilità dell’infermiere che rendendosi conto della situazione più grave di un paziente non avverte il medico e il paziente muore.
A deciderlo è la IV sezione penale della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 5/2018 ha chiarito che tra le due figure, medico e infermiere, deve esserci un rapporto di massima  collaborazione.

L’infermiere deve vigilare sul decorso post-operatorio, proprio per consentire se necessario l’intervento del medico.
E l’infermiere oggi va considerato non più “ausiliario del medico”, ma “professionista sanitario”.

Il fatto

Un paziente a seguito di un intervento aveva accusato una crisi ipotensiva. L'infermiere, anche se si era accorto per peggioramento delle sue condizioni, non aveva avvertito il medico  che avrebbe potuto prendere le misure necessarie.

La Cassazione richiama un passaggio della sentenza di merito di condanna secondo cui l'infermiere era responsabile di una gravissima omissione di non chiamare immediatamente il medico dell'interdivisione nonostante gli episodi ipotensivi del paziente.

Anche le testimonianze rese dalle persone presenti in corsia erano state concordi nel raccontare che dopo la chiusura dei liquidi il paziente aveva avuto una prima crisi ipotensiva che aveva costretto alla riapertura dei liquidi e al posizionamento di cuscini sotto i piedi per far confluire il sangue alla testa.

La sentenza

L'imprudenza degli infermieri (di cui uno il riccorrente) di non chiedere immediatamente l'intervento del medico ha costituito “l'errore clamoroso” secondo i giudici che è costato la vita al paziente, che in quel momento sottoposto a nuovo controllo dell'emocromo, avrebbe manifestato un ulteriore abbassamento del valore.

Questo con le crisi ipotensive, avrebbero permesso di formulare l'esatta diagnosi e procedere alle trasfusioni.

Respinto il ricorso dell'infermiere, il reato penale si è estinto per prescrizione e sono rimaste valide  solo le ammende civili.

La Corte nella sentenza, che respinge il ricorso dell’infermiere contro la sentenza della Corte di Appello di Roma, sottolinea che  “questa Sezione - che ha già avuto modo di individuare n capo all'infermiere delle responsabilità di tipo omissivo riconducibili ad una specifica posizione di garanzia nei confronti del paziente del tutto autonoma rispetto a quella de! medico  -  ha ravvisato ii fondamento di tale funzione di garanzia proprio nell'autonoma professionalità dell'infermiere quale soggetto che svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia  della salute  del paziente, essendo onerato di vigilare  sul decorso post operatorio proprio ai fini di consentire, nel caso, l’intervento del medico , che va oggi considerato non più ‘ausiliario del medico’, ma ‘professionista sanitario’”.

Quindi, conclude la Cassazione, “una volta accertata la legittimità e la coerenza logica della sentenza impugnata (quella della Corte d’Appello, appunto, n.d.r.) deve ritenersi che il ricorso, nel rappresentare l’inaffidabilità degli elementi posti a base della decisione di merito, pone solo questioni che esorbitano dai limiti della critica al governo dei campioni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dai giudicanti e nell’offerta di una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio. Questioni queste che sfuggono al sindacato di legittimità”.

Per questo secondo la Cassazione “ai sensi dall’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché, non ravvisandosi motivi di esclusone, al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in euro 2.000, nonché alla refusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili liquidate come da dispositivo”.   

03 gennaio 2018
© Riproduzione riservata

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