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Senza il consenso del paziente il sanitario “non ha diritto di curare”. Ecco la sentenza che ha condannato un medico per aver trasfuso un testimone di Geova


Il tetso della sentenza del Tribunale di Termini Imerese (di cui avevamo già dato notizia ad aprile) che ha condannato il medico responsabile di una Unità operativa per la decisione di trasfondere, nonostante l'opposizione, una paziente testimone di Geova ricoverata e operata per colecistectomia e poi per raschiamento uterino. Secondo i giudici (sentenza 465/2018) al medico "non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato". LA SENTENZA.  

06 SET - Violenza privata. E’ la condanna toccata a un medico responsabile dell’esecuzione di trasfusioni contro la volontà di una testimone di Geova che lo ha portato in tribunale dove è stato deciso – sentenza 465/2018, Tribunale di Termini Imerese – che al medico "non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato": ci vuole sempre il consenso informato del paziente.
 
Del fatto avevamo già dato notizia nell'aprile scorso e sulle ricadute della sentenza avevamo ospitato anche un commento di Luca Benci. Ora alleghiamo il testo della sentenza che non avevamo ancora pubblicato riepilogandone di seguito il contenuto.
 
Il fatto
Una gestante alla 13ª settimana compiuta di amenorrea era ricoverata nell'Unità Operativa Complessa di Ostetricia del Presidio Ospedaliero di Termini Imerese con diagnosi di “minaccia d'aborto. iperemesi gravidica. Squilibrio idroelettrolitico”. 

La gestante  ha riferito  al sanitario che ha compilato la cartella clinica di avere partorito quattro anni prima con il taglio cesareo  e dì  avere  precedentemente sofferto, per diverso tempo, di tachicardia. Inoltre, di  aver  vomitato  ripetutamente nei giorni antecedenti il ricovero e di avere avuto un  calo  ponderale di circa 3-4 Kg.

Durante il ricovero veniva ripristinato  l'equilibrio  idro-elettrolitico e verificato, oltre al normale accrescimento del feto,  che  la  paziente  presentava turbe psichiche, verosimilmente correlate a problematiche organiche, che non avevano necessità tuttavia di terapia specifica (“ ... note ansiose reattive verosimilmente a problematiche organiche. Non terapia psicofarmacologica”).

Ristabilita l'omeostasi organica, la gestante era dimessa una settimana dopo il ricovero.

Dopo otto giorni dalla dimissione l'insorgenza di una sintomatologia caratterizzata da vomito e dolore addominale "a cintura" nella regione dell'ipocondrio destro ha reso nuovamente necessario il ricovero e la visita ostetrica ha mostrato  un quadro ricadente nella norma e l'ecografia ha evidenziato la vitalità del feto.

Una ecografia all’addome metteva in evidenza la presenza di “colelitiasi e sabbia biliare” nella colecisti e la paziente veniva successivamente trasferita nella U.O.C. di Chirurgia Generale dove il giorno successivo era eseguito un intervento di colecistectomia per via laparoscopica.

Il decorso post-operatorio  appariva   normale   fino   a  qualche ora dopo, quando la paziente accusava contrazioni uterine.

Nuova visita ostetrica ed ecografia che evidenziava una frequenza cardiaca fetale gravemente e persistentemente bradicardica.

Nuovo intervento chirurgico di “redolaparoscopia”.

li nuovo intervento, con individuazione della fonte di sanguinamento e successiva emostasi sia per coagulazione sia con il passaggio di un punto di trasfissione, era eseguito rapidamente. I dati presenti nella cartella clinica non consentono di evidenziare se vi sia stata una perdita ematica durante tale intervento.

Dal diario clinico il giorno successivo l’intervento si constatava con una TAC dell'addome che la gravidanza si era interrotta. Riscontro ribadito il giorno successivo eseguendo l'ecografia ostetrica.

L'esecuzione del raschiamento uterino non era ritenuta urgente in considerazione del quadro clinico, ma veniva monitorata, comunque, la crasi ematica, essendo rilevato un decremento dell'emoglobina, dell'ematocrito e delle emazie per cui il personale sanitario riteneva di trasfondere la paziente, la quale rifiutava il trattamento sanitario essendo testimone di Geova.

A seguito del rilevamento il giorno dopo di un ulteriore decremento delle emazie, dell’emoglobina e dell’ematocrito, il personale sanitario illustrava il caso al magistrato di turno presso la Procura della Repubblica e trasfondeva la paziente tre vote, lo stesso giorno.

Raggiunta la stabilizzazione clinica, la paziente era trasferita alla Unità Operativa di provenienza, dove il giorno successivo era sottoposta a raschiamento della cavità uterina e, successivamente, dimessa a domicilio.
 
La sentenza

I giudici hanno concentrato la loro attenzione sul valore del consenso informato del paziente evidenziando che alla sua base c'è la prevalenza del "valore sociale dell'individuo" che non può non emergere in una società ispirata al rispetto e alla tutela della persona umana.

A ogni paziente deve essere data la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento, ma anche di rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla.

Su questo presupposto secondo il Tribunale la relazione medico-malato deve basarsi sulla "libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte".

Quindi se il consenso informato manca o è viziato e non c’è incapacità di manifestare la volontà né stato di necessità, il trattamento sanitario è invasivo rispetto al diritto della persona di "prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare".

Quindi il Tribunale ha riconosciuto al paziente il diritto di non curarsi, anche se la sua scelta lo esponga al rischio di vita.

In questo caso in cui si trattava di una testimone di Geova che, "cosciente, lucida e nel pieno delle sue capacità", aveva rifiutato espressamente di sottoporsi a una terapia trasfusionale che, nonostante ciò, le era stata praticata su espressa indicazione del medico imputato, secondo i giudici si è trattato di un comportamento ingiustificato, anche considerato che non esiste "un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell'interessato" e quindi il medico responsabile è stato condannato per violenza privata.

La condotta del medico – si legge nella sentenza - può essere qualificata come negligente per non essersi egli sincerato, anche tenuto  conto  dell'annotazione …. della volontà della paziente in ordine alle due ulteriori trasfusioni  e segnatamente per non avere verificato se permanesse il suo dissenso”.

I giudici hanno comunque ritenuto che all’imputato potessero essere concesse le circostanze attenuanti generiche “tenuto conto sia della sua incensuratezza sia del suo positivo comportamento processuale” e quindi ha limitato la condanna a un mese di reclusione e al pagamento delle spese processuali.

“Invero – commenta la sentenza -  la condotta tenuta dall'imputato, oltre che costituire illecito penale, costituisce anche illecito civile nei confronti del soggetto portatore dell'interesse penalmente tutelato, poiché la lesione dell'interesse protetto dalla norma penale costituisce danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c. L'imputato va, quindi , condannato al risarcimento dei danni subiti  dalla  parte  civile in  conseguenza  della  condotta  illecita … rinviandosi, in mancanza agli atti di idonei elementi di quantificazione,  al  competente  giudice  civile  per  la  loro   completa  liquidazione”.

06 settembre 2018
© Riproduzione riservata

Allegati:

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