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Cassazione. Assolto medico del 118 che non rianimò un paziente con poche possibilità di sopravvivere 


Per i giudici il fatto non sussiste perché anche se il sanitario avesse compiuto le manovre l’uomo colpito da infarto avrebbe avuto solo l’11% delle chances di salvarsi. LA SENTENZA.

12 OTT - Se il medico dell’emergenza giunge sul luogo della chiamata e non esegue la rianimazione cardiopolmonare su un uomo colpito da infarto perché ritiene che ormai il paziente avrebbe avuto poche possibilità di salvarsi (il 2 e l’11 per cento e no al 23 soltanto in caso di emersione di ritmo defibrillabile), non è omicidio colposo.
 
A stabilirlo è la sentenza 41893 della quarta sezione penale della Cassazione dell’11 ottobre 2019 che ha ribaltato con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”  la sentenza di colpevolezza della Corte d’appello che aveva condannato il medico a un anno di reclusione con i benefici della sospensione e della non menzione, e al risarcimento del danno, da liquidare in separata sede, emanata dopo l’assoluzione in primo grado del Tribunale.
 
Il fatto
Il medico del 118 intervenuto in via d'urgenza per un malore (infarto) di un paziente ha omesso di compiere tutte le manovre di rianimazione necessarie e ne ha conseguentemente provocato il decesso a seguito di insufficienza cardiaca acutissima da miocardiosclerosi e stenosi di un ramo coronarico del ventricolo destro con aritmia, asistolia e ischemia miocardica per spasmo coronarico.
 
L’accusa era dell’esistenza del nesso di causalità tra omissione dell'imputato e decesso della vittima e l'erronea applicazione della legge per quanto riguarda la sussistenza della colpa: all’imputato è stato rimproverato di non aver neppure tentato le pratiche rianimatorie, senza aver, tuttavia, accertato il determinismo causale dell'omessa condotta rispetto all'evento letale e anzi avendo affermato, in assenza di ogni giudizio controfattuale e senza confutare In alcun modo le argomentazioni del giudice di primo grado, che la rianimazione cardiopolmonare avrebbe attribuito alla vittima la possibilità di sopravvivenza tra il 2% e 11 per cento.
 
Il giudice di primo grado aveva deciso per l’assoluzione, ritenendo che Il medico fosse intervenuto sul posto dopo circa 20/25 minuti dalla chiamata, in un momento in cui il decesso della vittima era già avvenuto (elettrocardiogramma piatto, assenza di parametri vitali, mitriasi fissa, perdita di urine e di feci ... per mancanza di impulsi elettrici che arrivano dal cuore) e che, quindi, la rianimazione non fosse stata effettuata, conformemente ai protocolli nazionali e internazionali, proprio perché accertata la morte clinica del paziente.
 
Il giudice di secondo grado invece ha deciso per la condanna sottolineando che l'ambulanza era giunta sul luogo circa 8 minuti dopo la chiamata e che, secondo quanto riferito dalla convivente della vittima, poco prima il paziante era cosciente e respirava, anche se male. Se fossero state effettuate le procedure per mantenere una ossigenazione di emergenza, sarebbe stata scongiurata con buona probabilità la progressione verso un danneggiamento irreversibile dei tessuti e degli organi ("la sopravvivenza a lungo termine nell'arresto cardiocircolatorio extraospedaliero riguarda, nel lasso temporale di un anno, Il 74% dei pazienti , "la totale assenza di ... manovre rianimatorie privò il paziante della possibilità di sopravvivere, stimata In un arco tra Il 2% e 1’11 % e, solo in caso di emersione di ritmo defibrilla bile, di circa il 23 % di tali chanches").
 
La sentenza
La Cassazione ha deciso per l’assoluzione del sanitario, affermando il medico d’urgenza non è colpevole di omicidio colposo e che sbaglia la Corte d’appello a riformare l’assoluzione pronunciata in primo grado. La regola da applicare è il giudizio controfattuale: il nesso di causalità fra l’omissione dell’imputato e la morte del paziente deve essere riscontrato in base a un giudizio di alta probabilità logica. E non solo su un ragionamento di deduzione fondato su generalizzazioni scientifiche, ma anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sul fatto storico e le particolarità del caso concreto.
 
“In definitiva – si legge nella sentenza - il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
 
La Cassazione nel motivare la sua sentenza spiega che “deve osservarsi che sarebbe superfluo accertare se l'imputato sia giunto sul posto prima o dopo la morte del paziente, visto che si evince dalla sentenza impugnata che il suo intervento, in considerazione delle cognizioni mediche e delle circostanze del caso concreto, non avrebbe potuto salvarlo con l'alto grado di credibilità razionale e, cioè, di elevata probabilità logica o probabilità prossima alla certezza richiesto, secondo l'elaborazione giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del nesso causale”.
 
E inoltre “occorre sottolineare che, in conformità all'insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, in presenza di una causa estintiva del reato, si riscontra, comunque, l’obbllgo del giudice di pronunciare l'assoluzione dell'imputato per motivi attinenti al merito laddove gli elementi rilevatori dell'Insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all'imputato, emergano In modo Incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una 'constatazione', che a un atto di 'apprezzamento' e sia quindi Incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento”.
 
Secondo la cassazione sono contraddittorie anche le dichiarazioni dell’unica testimone, la convivente della vittima: dalla sentenza di primo grado si evince che quando parte la telefonata al 118 l’uomo ha già perso conoscenza; dalla pronuncia d’appello emerge invece che la vittima è cosciente, anche se respira male. Il tribunale decide per l’assoluzione appunto perché ritiene il paziente clinicamente morto al momento in cui il medico interviene.
 
Per questo la Cassazione “annulla senza rinvio la sentenza (della Corte d’Appello) perché il fatto non sussiste”

12 ottobre 2019
© Riproduzione riservata

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