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Anche il Servizio Sanitario Nazionale deve saper mutare e generare “varianti” più resistenti

di Claudio Maria Maffei

13 GEN - Gentile Direttore,
l’altro giorno Lei ha pubblicato un editoriale sulla necessità di una risposta più efficace alle emergenze pandemiche ricordando nelle conclusioni che il Pnrr costituisce potenzialmente un’occasione d’oro per pensare all’istituzione di una rete di emergenza pandemica. A questo riguardo nell’intervento vengono fatte alcune proposte come programmare e realizzare quanto prima una rete ospedaliera dedicata alle malattie infettive pandemiche con posti letto, attrezzature e personale dedicato da attivare alla bisogna in luoghi e ambienti separati e prevedere unità territoriali di emergenza pandemica attivabili in poco tempo. Credo che questo intervento giustamente richiami ad una maggiore capacità di innovazione nei modelli strutturali e organizzativi del Servizio Sanitario Nazionale che al momento fa fatica a star dietro con la sua rigidità alle mutazioni del virus.  
 
Non a caso questo intervento fa seguito ad una serie di interventi dei giorni precedenti di clinici (vedi la  lettera aperta del  Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieril’appello della Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologie l’allarme della Società Italiana di Chirurgia) che hanno segnalato le criticità che la pandemia ha generato nella risposta alle altre patologie sia a livello territoriale, ad esempio con la riduzione delle attività di screening oncologico, che a livello ospedaliero con la notevole riduzione della attività chirurgica. Questi problemi già drammatici in occasione della prima ondata epidemica si stanno riproponendo con analoga drammaticità anche in questa fase, con in più la frustrazione di non essere riusciti a fare tesoro delle esperienze drammatiche fatte finora.
 
La risposta a queste criticità non può essere data solo aggiungendo risorse, e quindi spazi, tecnologie e soprattutto personale, alla attuale struttura del Servizio Sanitario Nazionale da attivare in caso di emergenza. Occorre “mutarne” la attuale struttura e organizzazione e renderlo capace di ulteriori mutazioni in caso di emergenza epidemica. Faccio due esempi di possibile mutazione che ovviamente si aggiungono a quelle già previste  nel Pnrr e negli emanandi DM sulla riforma del territorio  e nuovo DM 70.
 
Il primo esempio riguarda il rapporto pubblico-privato. Ha quasi dell’incredibile il diverso destino che hanno subito le strutture pubbliche a gestione diretta rispetto a quelle private accreditate e contrattualizzate nel corso di questi primi due anni di pandemia. La pandemia si è scaricata in misura enormemente superiore sulle prime non solo a livello di attività di ricovero specie di area chirurgica, ma anche su quella ambulatoriale con una situazione quasi grottesca nell’area di laboratorio analisi, un’area in cui il pubblico ha lasciato quasi completamento campo libero alle strutture private. In caso di pandemia la distinzione tra strutture pubbliche a gestione diretta e strutture private contrattualizzate deve come minimo sfumare. Vanno definite nuove regole nazionali e sottoscritti nuovi accordi regionali che rendano automatica una integrazione spinta tra le due componenti in caso di emergenza.
 
Il secondo esempio riguarda il rapporto tra attività chirurgiche programmate e attività chirurgiche urgenti negli ospedali pubblici. Ad oggi tutte o quasi le strutture ospedaliere pubbliche fanno sia attività chirurgica urgente che programmata. Prevedere strutture a specifica vocazione per la attività programmata potrebbe aiutare a difendere alcune attività chirurgiche che in caso di emergenza rischiano di avere liste di attesa lunghissime clinicamente inaccettabili (anche il diverso rapporto con le strutture private potrebbe in questo senso essere molto d’aiuto).
 
Avendo premesso che al Servizio Sanitario Nazionale mancano soprattutto le risorse umane, occorre però avere ben chiaro che alcuni picchi di attività richiesti dalle emergenze pandemiche non potranno mai avere una risposta con la sola aggiunta di ulteriore personale assunto che aggiunto a quello già disponibile si renda disponibile allo scopo. Il caso più clamoroso è quello delle terapie intensive in cui i picchi più alti di ricovero possono trovare risposta (ed in buona parte già la trovano) in nuove aree ad hoc dedicate in ambienti idonei e con la tecnologia che serve, picchi che non troveranno mai completa risposta in una adeguata quantità di personale in stand-by pronto a rendere quelle aree interamente operative. Basta guardare una qualunque curva dell’andamento dei ricoveri in terapia intensiva per rendersene conto.
 
Ma analoghe considerazioni possono essere fatte per altre attività correlate alla risposta diretta alla pandemia come quelle di Pronto Soccorso, di assistenza domiciliare e residenziale, di laboratorio analisi, di vaccinazione, di tracciamento fino a ricomprendere quelle di analisi dei dati epidemiologici.Forse (ma a questo punto il forse va tolto) è arrivato il momento di immaginare soluzioni che diano una risposta ad hoc alle esigenze di personale determinate dai picchi epidemici più accentuati. Il tema è ovviamente complesso e va affrontato con metodo a livello di sistema. Ma qualche esempio di possibile soluzione si può cominciare a fare:
 
- la gestione organizzata e razionale dei professionisti “riservisti” da reimmettere in servizio alla bisogna;
- il ricorso a personale “laico” formato per alcune attività supervisionate come quelle di tracciamento;
- la formazione di personale in grado di passare dalla propria area di assegnazione ad un lavoro supervisionato in altra area come, in ospedale, quella critica o di Pronto Soccorso/Medicina d’Urgenza;
- la chiara definizione a livello nazionale delle modalità di coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale, dei Pediatri di Libera Scelta e degli Specialisti Convenzionati;
- la gestione integrata tra più Regioni della attività di monitoraggio epidemiologico (ci sono differenze enormi tra Regioni pure vicine in termini di qualità dei sistemi di reporting).
 
Insomma ad un virus che muta non si può star dietro con modelli organizzativi e culturali immutabili.
 
Claudio Maria Maffei

13 gennaio 2022
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