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Hai una partita iva? Vietato ammalarsi!

di Stefano Lecora

24 MAG -

Gentile Direttore,
la libera professione è spesso considerata più attraente rispetto al lavoro subordinato. Già prima della pandemia i professionisti sanitari erano costretti a confrontarsi con un mercato del lavoro iper-competitivo, dove la domanda e l’offerta avevano raggiunto un disequilibrio preoccupante.

Si potrebbe pensare che all’aumento delle richieste di sanitari corrisponda un aumento dell’occupazione e della qualità di vita dei professionisti, ma non è così!

Da una indagine condotta dalla CDA dei fisioterapisti, emergono paghe che toccano un minimo di 9 euro lordi ed un massimo di 22 euro lordi. Queste forme di schiavitù legalizzata non tengono conto del fatto che il professionista sanitario è anche spesso chiamato a svolgere attività domiciliare, dovendosi spostare per chilometri e sostenendo a sue spese i costi per lo spostamento, anch’essi in costante aumento.

Alla media nazionale del prezzo per orario della prestazione, pari a 13 euro lordi, vanno inoltre aggiunte a carico del professionista sanitario anche le tasse, i contributi per il piano pensionistico e le spese derivanti da una responsabilità legislativa civile e penale, nonché la formazione annuale obbligatoria.

Ma allora cosa rimane effettivamente del guadagno ottenuto con il lavoro intellettuale e fisico del Dottore in Fisioterapia?

Oltre alle ore di lavoro, che arrivano a raggiungere anche le 10 al giorno, rimane un grande senso di precarietà ed insicurezza, derivanti da un futuro poco chiaro e dalla mancanza di possibilità di progettare un’eventuale vita familiare.

A queste condizioni, il professionista sanitario non avrà motivazione a migliorarsi in corsi di alta formazione finalizzati ad accrescere le qualità delle proprie prestazioni e di conseguenza si abbasserà la qualità dei servizi erogati, a fronte di un costante e crescente aumento del livello di assistenza richiesto.

Non in ultimo, come riportato da un’indagine di settore (Centro Studi FNOPI), nel 83% dei casi l’ansia e lo stress derivanti dall’attività lavorativa inducono in molti professionisti, anche giovani, la cosiddetta sindrome da burnout.

L’OMS ha definito il burn-out come una “malattia occupazionale”, derivante da uno stress cronico sul posto di lavoro, non adeguatamente gestito.                                                                                                                                                  Spesso questa condizione è correlata alle professioni “d’aiuto”, come quelle sanitarie, in cui il coinvolgimento emotivo può esasperare e aumentare una condizione di stress. Si può quindi facilmente intuire come, in una situazione di emergenza come la pandemia, il burn-out sia un rischio concreto e si debba agire con misure di prevenzione per i lavoratori.                                                                                                                                                                               

È ormai evidente nel comparto Sanità, in Italia, l’esigenza di ricreare una cultura aziendale improntata sulla sicurezza lavorativa e sulla la tutela del benessere psicologico che ne consegue.

Alla luce di tutto ciò, infatti, si sta assistendo ad una rapida e crescente scelta di chiudere la partita Iva da parte dei professionisti sanitari, anche a costo di cambiare profilo professionale e/o espatriare fuori dai confini italiani, da dove arrivano sempre più numerose proposte di lavoro e promesse di una migliore qualità di vita.

Agli slogan e alle pubblicità accattivanti sul ruolo eroico dei sanitari utilizzati dal governo durante la pandemia non ha infatti fatto seguito nessuna risposta alle esigenze dei professionisti sanitari. Anche sotto il profilo dei diritti, sono mancate le adeguate norme atte a proteggere chi ha affrontato l’emergenza sanitaria senza scudi o rendite di posizione.

La legge italiana prevede infatti ancora un impianto normativo obsoleto, che è stato rivisto soltanto parzialmente nel 2017, con un intervento peraltro non risolutivo, il cosiddetto “Statuto dei lavoratori autonomi”.

Per invertire la rotta bisogna agire in fretta!

Bisogna adottare delle riforme in grado di assicurare maggiore protezione ai lavoratori autonomi, attraverso contratti di lavoro sicuri ed arginando lo sfruttamento e lo stato di schiavitù che centri privati e privati/convenzionati, mettono in atto attraverso un utilizzo improprio della partita iva.

A questo riguardo, ANPSE ha individuato una valida soluzione, sostenuta anche dalla Federazione Nazionale degli Ordini (FNO TSRM e PSTRP), che consiste nell’approvazione di una proposta legge finalizzata a raggiungimento di tre importanti obiettivi:     

- L’ottenimento del diritto all’equo compenso:

- La possibilità di stipulare convenzioni dirette tra professionisti ed AA.SS.LL (Legge regionale 23 dicembre 2015, n. 20)

- L’accreditamento delle cure domiciliari (intesa Stato-Regioni 151/CSR del 4 agosto 2021).

L’alta formazione richiesta ai Professionisti Sanitari, ed un impegno in termini di doveri legali, hanno necessariamente bisogno di essere tradotti in forme di lavoro tutelato, dove poter crescere e migliorare le proprie prestazioni, a favore di una Sanità di Qualità e non di Quantità.

Dott. Stefano Lecora
Chinesiologo fisioterapista, magistrale in scienze riabilitative delle professioni sanitarie
Segretario dell’Associazione Nazionale Professionisti Sanitari in Evoluzione (ANPSE)

 

 



24 maggio 2022
© Riproduzione riservata

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