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Cosa manca nel “Manifesto” dei medici

di Claudio Maria Maffei

08 SET -

Gentile Direttore,
sta avendo ampia circolazione il manifesto della Intersindacale Uniti per la Sanità , da molti definita come “intersindacale medica”. Il Manifesto fa proposte largamente condivisibili, ma alcune perplessità nascono (almeno dal mio punto di vista) dal fatto che tutte le proposte fanno esclusivo riferimento ad alcuni aspetti della politica del personale.

La frase chiave del Manifesto è: “La sostenibilità del servizio sanitario passa per la valorizzazione, l’autonomia e la responsabilità dei suoi professionisti. Perché parlare di sanità significa parlare di lavoro in sanità e parlare di lavoro significa parlare di capitale umano. È questo il passaggio necessario per chiunque abbia a cuore il presente e il futuro della più grande infrastruttura civile e sociale che questo Paese abbia costruito”.

Su questa base con un taglio a mio parere riduttivo le otto proposte sono “strettamente” sindacali e riguardano prevalentemente la possibilità di assumere più personale a tempo indeterminato e il miglioramento del trattamento economico.

Non vengono invece presi in considerazione alcuni problemi che influenzano fortemente la organizzazione del lavoro e di conseguenza la programmazione e la gestione del personale dirigente.

Ne cito solo tre a titolo di esempio che riguardano tra l’altro “la mucca in corridoio” come la chiamerebbe l’Onorevole Bersani e cioè il notorio eccesso di medici che l’Italia continua a registrare rispetto agli altri Paesi Europei (leggi il recente contributo di  Walter De Caro su queste pagine).

Il primo problema riguarda la riluttanza da parte della politica a mettere mano al DM/70 che andrebbe (parere mio) confermato nei suoi principi e adattato alle esigenze emerse nel corso della pandemia. Non è certo un caso che il ricorso ormai patologico denunciato dallo stesso Manifesto a “prestazioni privatistiche acquistate a cottimo, con una distorsione evidente del mercato del lavoro” sia legato anche ad una programmazione irrazionale della rete ospedaliera pubblica, in molte Regioni ipertrofica e inefficiente.

Le prestazioni a cottimo si utilizzano ad esempio molto per la copertura dei turni di continuità assistenziale nei Dipartimenti di Emergenza distribuiti a piene mani nelle reti ospedaliere pubbliche da una politica regionale che continua a cercare consenso investendo nei fatti sugli ospedali e a parole sul territorio. Purtroppo questa politica dei “campanili” trova troppo spesso alleati o complici silenziosi nella dirigenza medica.

Il secondo problema riguarda le “battaglie di confine” tra la professione medica e le altre professioni (si pensi alle degenze post-acuzie a gestione infermieristica e all’area radiologica solo per citare due temi su cui più contributi anche di recente sono comparsi su queste pagine).

Tutti sanno o dovrebbero sapere che, come ha recentemente scritto qui Roberto Di Bella, “costruire relazioni interprofessionali autentiche capaci di valorizzare la reciprocità tra professionisti, non solo feconda un ambito specialistico forte e autorevole, ma attiva una enorme opportunità nei confronti della persona assistita, che è quella, di dare un senso alla propria situazione di malattia, riconoscendo all’operatore un ruolo e una  funzione sociale a prescindere dal titolo accademico.”

Nei fatti prevale la incapacità di trovare soluzioni che non siano difensive e conservative (gli orti professionali non si toccano). Rubo ancora una frase a Di Bella che si chieda come mai si continui a  “percorrere la strada del rigido scientismo in capo ad una sola persona ossia al responsabile del processo, delegittimando tutti coloro che pur contribuendo in modo determinante al risultato, medico non sono (un caso più unico che raro nei paesi civili).”

Un terzo problema è quello ormai fuori controllo della inappropriatezza nella programmazione e nel ricorso alle tecnologie pesanti. Faccio per mia comodità l’esempio delle sei emodinamiche programmate nelle Marche a fronte di un milione e mezzo di abitanti. Anche qui il ruolo dei medici sarebbe decisivo, ma prevale spesso nei fatti la spinta dei professionisti a cercare lo sviluppo delle “proprie” competenze e attività al di fuori di una logica di sistema. Troppe (e ingiustificate) tecnologie nel sistema pubblico equivalgono a un loro sottoutilizzo magari da rimediare con altro lavoro a cottimo.

L’intersindacale medica con la stessa autorevolezza con cui reclama giustamente una diversa politica delle risorse umane nei confronti della dirigenza sanitaria potrebbe mettere sul tavolo questi ed altri temi perché arrivare com’è giusto ad avere più dirigenti meglio pagati e maggiormente valorizzati sarà difficile in un sistema che non cambia modelli culturali, organizzativi e programmatori. Mi verrebbe da aggiungere “per fortuna”.

Claudio Maria Maffei

 

 

 

 

 

 

 

 

 



08 settembre 2022
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