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Autonomia “sanitaria” differenziata: frammentata e sempre più in affanno

di Lucio Romano

17 GEN -

Gentile direttore,
il dibattito sull’autonomia regionale differenziata ha ripreso nuovo vigore nelle ultime settimane, visto lo schema del Disegno di legge Calderoli, inviato a Palazzo Chigi e alla Conferenza delle Regioni, con il pressing della Lega sul Governo.

La Costituzione prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario. È il c.d. regionalismo differenziato o regionalismo asimmetrico. Vale a dire competenze in via esclusiva che, a tutt’oggi, sono svolte dalle regioni secondo legislazione concorrente nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. Con l’autonomia differenziata potrebbero essere riconosciute alle regioni anche materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

Il riconoscimento di maggiori forme di autonomia differenziata alle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si è imposto al centro del dibattito a seguito delle iniziative intraprese da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna nel 2017 e gli accordi preliminari sottoscritti con il Governo in carica a febbraio 2018, appena qualche giorno prima delle elezioni parlamentari. Successivamente altre regioni hanno intrapreso il percorso per la richiesta di condizioni particolari di autonomia.

Rimangono attuali questioni fondamentali. Tra queste, il ruolo del Parlamento; il rispetto del principio di sussidiarietà; la definizione dell'ampiezza delle competenze da attribuire alle singole regioni a cominciare da scuola, sanità, assistenza sociale, infrastrutture. E poi, la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP) che non dovrebbero essere solo definiti ma “garantiti” con ben precise risorse finanziare che non facciano riferimento, però, alla spesa storica. Altrimenti si perpetuerebbe una storica, questa sì, diseguaglianza a danno del Mezzogiorno. Ebbene, con lo Schema di legge Calderoli i LEP, per quanto definiti, sarebbero finanziati solo con le future manovre di Bilancio.

Premesse le ovvie sperequazioni inerenti spesa storica, fabbisogni standard, clausola di salvaguardia, fondi di perequazione, federalismo fiscale, ecc., emergono ulteriori e non secondari interrogativi. Ricordiamone solo alcuni: contrattualizzazione delle competenze con trattative per ogni singola regione? Parlamento esautorato dalle sue prerogative? Trascurabile il rischio di frammentazione della coesione nazionale in una stagione politica che richiede tutt’altro, ovvero un rafforzamento?

Sono questi interrogativi che non possono essere sottovalutati o elusi. Come ricorda Gianfranco Viesti in un recente articolo, ne può scaturire un quadro nazionale caratterizzato da una estesa, confusa, frammentazione delle competenze nelle politiche pubbliche, che non si ritrova in nessun Paese. Un percorso assai discutibile, di sostanziale riforma delle competenze regionali (art. 117 Cost.) ottenuto senza le modalità di revisione previste dalla stessa Costituzione (art. 138).

Si richiede una imprescindibile riflessione di approfondimento secondo una visione che coniughi concretamente i principi di sussidiarietà e di eguaglianza richiamati dalla Carta costituzionale.

Un regionalismo differenziato così pensato a tutt’oggi non accentua forse le diseguaglianze nel già problematico ambito della coesione sociale? Basta ricordare l’esperienza dell’assistenza sanitaria nella pandemia Covid-19 in cui universalità ed eguaglianza – assi portanti del Servizio Sanitario Nazionale – si sono ampiamente diluiti e difformemente applicati nella diversità dei 21 Servizi Sanitari Regionali e delle Province autonome. Manifeste le divaricazioni, con interventi in ordine sparso quasi ritenendosi ogni regione o provincia autonoma disconnessa dalle altre e con destini diversi.

Una sanità frammentata, a macchia di leopardo e sempre più in affanno, con una mobilità sanitaria interregionale che, secondo l’ultimo report AGENAS, rileva che non si ferma l’esodo da Sud a Nord per curarsi. Con una prevedibile ulteriore migrazione anche di medici e personale sanitario, a fronte di migliori possibilità di lavoro e di retribuzioni offerte nelle regioni del Nord ma con un ulteriore accentuarsi delle disuguaglianze. Inoltre, l'autonomia differenziata comporterà l’altrettanto grave rischio dell’impoverimento della sanità pubblica con criteri storici di ripartizione di fondi alle regioni che devono essere superati, inserendo anche l’indice di deprivazione.

Tenendo conto che nello schema del DdL si prevede che, secondo le intese, saranno individuate “le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale o riserva di aliquota, in modo tale da consentire l’integrale finanziamento delle funzioni attribuite”.

È uno scenario che farebbe rientrare la “tutela della salute” tra le materie su cui le Regioni potranno guadagnare margini di indipendenza, rispetto al governo centrale, anche molto più estesi di oggi. E il Ministero della Salute sarebbe relegato al mero coordinamento di sistemi sanitari regionali molto diversi tra loro. Il tutto in un contesto che richiederebbe, invece, un contrasto concreto a isolazionismi e divisioni.

In quest’ultima prospettiva si inserisce la Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, di cui è in corso la raccolta delle firme, che propone una preliminare e necessaria revisione del Titolo V della Costituzione, ma senza abolirlo. Una revisione, per il vero, richiesta da tempo per le evidenti incongruenze palesate nel tempo. L’obiettivo è consentire una limitata e giustificata variabilità delle autonomie regionali; eliminare gli elementi che la rendono potenzialmente pericolosa per l’unità del paese; introdurre la clausola di supremazia della legge statale finalizzata alla tutela dell’interesse nazionale e dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Ciò si traduce nel cancellare la possibilità di autonomia differenziata per le materie oggi affidate alla potestà esclusiva dello Stato (giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) e nel recuperare flessibilità lasciando il legislatore statale libero di adeguare “forme e condizioni particolari” già riconosciute a esigenze diverse e sopravvenute che ne suggeriscano la revisione.

Aspetto rilevante è affidare alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la determinazione di livelli “uniformi” e non più “essenziali” delle prestazioni per i diritti civili e sociali nonché riportare in ampia misura alla potestà esclusiva materie come, ad esempio, la scuola e l’istruzione a tutti i livelli, le infrastrutture materiali e immateriali di rilievo nazionale e di valenza strategica. In sintesi, riconoscere la potestà legislativa concorrente attribuita alle regioni ma senza la possibilità di derive che mettano a rischio unità e indivisibilità della Repubblica. Questo significherebbe introdurre un presidio più efficace per l’eguaglianza dei diritti in ogni parte del paese. In definitiva, una premessa necessaria per consentire una effettiva unità nell’autonomia secondo sussidiarietà ed eguaglianza, nella fiducia tra cittadini e istituzioni, nella reciproca corresponsabilità.

Ci ha ricordato il Presidente Mattarella nel Messaggio di fine anno 2022: “Le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne – creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza. Ci guida ancora la Costituzione, laddove prescrive che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ledono i diritti delle persone, la loro piena realizzazione. Senza distinzioni.”

Lucio Romano

Medico Chirurgo e Docente di Bioetica - Senatore della Repubblica XVII Legislatura



17 gennaio 2023
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