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Ecco perché il privato accreditato può aiutare a garantire i Lea

di Nicola Rosato

27 MAR - Gentile direttore,
oggi si discute molto del rapporto tra sanità pubblica e sanità privata e si teme che il Servizio Sanitario Nazionale, universalistico, venga piano piano smantellato. È una discussione viziata da preconcetti ideologici. La natura pubblica del SSN non cambia se a fornire le prestazioni sono anche imprese private con o senza scopo di lucro. Non cambia perché i livelli di assistenza, erogabili da strutture pubbliche o private a carico della fiscalità generale e con la compartecipazione dei cittadini a certe condizioni, li stabilisce lo Stato e non l’erogatore privato.

Privata la sanità sarebbe, quindi, se il cittadino, le famiglie, le imprese, potessero scegliere nel mercato quali livelli di assistenza coprire con contratti assicurativi, con welfare aziendale o con pagamenti diretti (out of pocket). Ma non è questo il caso italiano.

È necessaria la presenza di operatori privati, ma accreditati e contrattualizzati con il SSN, per garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA)? La risposta è sì. La base del sistema di qualità del servizio è l’accreditamento delle strutture erogatrici, ossia la presenza di requisiti fisici, professionali, tecnologici, ed organizzativi che – verosimilmente – garantiscono la produzione di prestazioni appropriate e, quindi, efficaci a rispondere ai bisogni manifestati dalle persone. Ma non è sufficiente. Se le strutture accreditate fossero tutte soltanto pubbliche sarebbero autoreferenziali. Occorre invece che esse siano messe in competizione tra loro e con strutture accreditate private: una competizione verso livelli di qualità sempre maggiori, non verso l’acquisizione di quote crescenti del “mercato” sanitario che non è espandibile perché il finanziamento pubblico del servizio sanitario è un “fondo”.

Come si innesca la competizione sulla qualità? Con la libera scelta del cittadino che può – senza vincoli – servirsi di un ospedale o di altri centri pubblici nella propria provincia o regione di residenza, o di altra regione; o servirsi di un ospedale o altro centro privato in tutto il territorio nazionale.

La libera scelta è un formidabile indicatore di qualità. Le regioni che registrano sistematicamente la fuga di pazienti verso centri extra regionali, con i conseguenti cospicui deficit finanziari (mobilità passiva), sanno subito che gli erogatori pubblici e privati regionali non godono di grande reputazione o, perlomeno, hanno un’offerta insufficiente che alimenta le liste d’attesa. Riassorbire la mobilità che non sia marginalmente fisiologica richiede che si valutino con precisione i punti di debolezza di ciascun servizio sanitario regionale per innovare e adeguare l’offerta sanitaria accreditata pubblica e privata.

I risultati degli interventi saranno graduali nel tempo, però non c’è alternativa. Ma occorre un’avvertenza. Non è detto che le regioni di minore dimensione demografica debbano essere autosufficienti nell’offerta sanitaria. Le discipline ospedaliere per le quali sono richiesti bacini ampi di utenza, perché richiedono conoscenze, competenze e abilità complesse e consolidate e dotazioni tecnologiche sofisticate, devono essere organizzate in reti sovraregionali per ragioni di qualità e di costo. Ostinarsi ad applicare pedissequamente standard nazionali a piccole o medie realtà può soddisfare orgogli campanilistici o corporativi, ma genera soltanto costi fissi di esercizio che non saranno mai coperti da produzione sufficiente.

Serve, dunque, una stringente pianificazione sanitaria, sia nazionale che non c’è più perché sostituita da quei surrogati che sono i Patti per la salute, sia regionale che è presente soltanto sporadicamente.

È ovvio che anche i criteri gestionali devono essere innovati, a cominciare dai limiti ai contratti con gli erogatori privati (i tetti di spesa)[1]. Oggi questi contratti – stipulati senza procedure competitive[2] nonostante i ripetuti richiami dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – sono contratti capestro, sottostimati rispetto alla capacità produttiva dei singoli operatori, non orientati a fronteggiare la mobilità passiva, con vecchie tariffe che rendono problematici tanto gli equilibri di bilancio correnti, quanto gli investimenti. Si spreca un capitale imprenditoriale, in un settore ad alta intensità di lavoro professionalmente qualificato, impoverendo la comunità di riferimento del valore intrinseco e del valore aggiunto che potrebbe essere generato.

Vi è un secondo argomento che campeggia nei dibattiti quotidiani: il sottofinanziamento della sanità pubblica, che qui non si vuole negare, essendone segnali evidenti – tra l’altro – le liste d’attesa, il singolare meccanismo del payback imposto ai fornitori di dispositivi medici e di farmaci, il mantenimento di tariffe non aggiornate rispetto all’andamento dei costi di esercizio. Ma anche in questo caso, come in quello della presunta deriva verso la privatizzazione, appaiono un pregiudizio ideologico le opinioni che sostengono essere in atto da parte del Governo una politica di “definanziamento strutturale della sanità”[3].

Le analisi del rapporto tra prodotto nazionale e fondo sanitario vanno affinate. Se è vero che in rapporto assoluto col prodotto nazionale il finanziamento corrente (esclusi finanziamenti Covid) oscilla stabilmente intorno al 6,5% (fatta eccezione dell’effetto ottico degli anni della pandemia, in cui il rapporto è cresciuto a oltre il 7% per il crollo del PIL)[4], non altrettanto può dirsi della quota capitaria che, per effetto del calo demografico è cresciuta del 9,8% (da circa 1914 a circa 2101 euro) tra il 2019 e il 2022. Ossia, è cresciuta in misura sostanzialmente equivalente all’incremento del prodotto nazionale nello stesso periodo. Ma non è tutto. Al finanziamento corrente del servizio sanitario devono essere aggiunte almeno altre due voci significative che non compaiono nel rapporto FSN/PIL: gli sconti fiscali che lo stato concede a chi spende di tasca propria per la sanità e il concorso della spesa sociale pubblica soprattutto per i servizi sanitari residenziali extra ospedalieri.

Tutto ciò ci soddisfa? Certo che no, perché la quota capitaria è cresciuta per il fenomeno analogo a quanto accadeva nell’epoca pre-industriale: chi sopravviveva alle pestilenze, alle catastrofi naturali, alle guerre e a qualsiasi causa di calo demografico si trovava a disporre di maggiori risorse[5]. Ma non c’è traccia di politiche di definanziamento. Semmai, la questione è a cosa effettivamente finalizzare il maggiore finanziamento corrente che si invoca.

Si consideri il caso delle liste d’attesa. Dal ministro Schillaci apprendiamo che nel 2022 ci sono stati 1,3 milioni di ricoveri inappropriati[6]. E milioni di prestazioni inappropriate sono quelle ambulatoriali o gli accessi spontanei al pronto soccorso. È ben più che verosimile, se non si interviene su questa causa strutturale del fenomeno, che stanziare risorse straordinari per abbattere le liste d’attesa finisca per finanziare ciò che non è appropriato. Quindi, il problema principale è il governo della domanda, è la necessità di mettere i medici di famiglia in condizione di fare bene il loro lavoro guidato da un budget rigorosamente ancorato ad obiettivi di salute, prima ancora di stanziare risorse aggiuntive a quelle ordinarie.

E si torna così al vuoto della programmazione nazionale e regionale. La situazione attuale richiama alla memoria l’ammonimento di Winston Churchill: “Colui che non riesce a pianificare sta progettando di fallire”. Il governo della domanda, la stima del fabbisogno adeguatamente finanziato, deve precedere la programmazione dell’offerta, come accade per qualsivoglia attività economica. Se si capovolge il metodo, per nessun maggiore finanziamento del servizio sanitario sarà garantito il suo impiego efficiente. E questa perplessità investe anche i progetti del PNRR con tanti ospedali di comunità e centrali operative territoriali che fagocitano o si sovrappongono ai distretti.

Nicola Rosato
Libero professionista, analista economico della pubblica amministrazione

[1] In verità i tetti di spesa riguarderebbero anche le aziende ospedaliere pubbliche, ma la prassi di ripianare i costi a piè di lista li ha trasformati in una finzione. Il sistema funzionerebbe meglio se anche le strutture pubbliche inefficienti fossero chiuse (fallissero), come in realtà è accaduto anni fa, quando molte grandi aziende ospedaliere hanno perso la loro autonomia e sono stati trasformati in ospedali a gestione diretta delle USL.
[2] Il fenomeno è identico a quello delle concessioni balneari prorogate senza termine che espone l’Italia a sanzioni UE.
[3] I. Cavicchi, Quotidiano Sanità 23 febbraio 2023.
[4] Fonte AGENAS per il finanziamento corrente del SSN; fonte ISTAT per il PIL.
[5] C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Il Mulino 1994.
[6] Quotidiano Sanità 25 marzo 2023.

27 marzo 2023
© Riproduzione riservata

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