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La violenza non è malattia mentale, la cura non è controllo sociale

di Roberto Lezzi

26 MAG -

Gentile direttore,
nelle reazioni seguite all’omicidio della psichiatra di Pisa, si sono viste molte asserzioni all’insegna dello stigma ‘malattia mentale sinonimo di violenza’, ma con un di più: che la violenza sia espressione di malattia mentale. Da qui l’idea che gli psichiatri debbano prevenire i delitti, dato il presupposto che il comportamento deviante sia meccanica espressione di una patologia e non espressione di un uomo comunque dotato di soggettività e volontà.

La psichiatria avrebbe come funzione il controllo degli uomini, da normalizzare, da ‘aggiustare’ come oggetto. Il passo a iscrivere nella psichiatria ogni comportamento sarebbe breve, a partire dal codice penale.

Esiste la malattia mentale? Esistono condizioni di sofferenza e di destrutturazione delle funzioni psichiche, di rottura, che come un quid novi irrompono nei processi del pensiero, della percezione, dell’umore, tali che talvolta necessitano di una coazione alle cure. Ma non sono i comportamenti antisociali a far riconoscere una malattia grave, quanto il riscontro delle gravi alterazioni psicopatologiche, le quali di norma neppure si accompagnano a violenza.


Aiutare l’umano sofferente così che possa esercitare con la salute la propria libertà e responsabilità è l’unico mandato etico e professionale attinente alla cura. In quanto medico lo psichiatra opera per la libertà e non per il controllo, che è in capo a specifici poteri istituzionali al fine di proteggere la comunità (anche i sanitari) da chi agisce, per qualsiasi causa, comportamenti delittuosi.

Può esservi una coincidenza fra le due azioni? Sì, ma come la Giustizia non può curare, la Medicina non può amministrare giustizia.

Con la dovuta chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) si è assistito a uno strano fenomeno. L’istituzione delle REMS, “Residenze esterne per le misure di sicurezza’, destinate a persone ritenute ‘non imputabili’ per grave malattia mentale e ‘socialmente pericolose’, proibisce l’accesso del reo alla detenzione e stabilisce che presso le REMS le forze dell’Ordine garantiscono solo la sorveglianza delle mura perimetrali, Con questo principio è stato spostato su strutture psichiatriche dotate di personale sanitario ogni onere, dalla cura alla gestione dei comportamenti violenti.

Come conseguenza indiretta, tale principio si è esteso ai reparti psichiatrici (SPDC), tanto più che si sono moltiplicati i pazienti con ‘disturbi di personalità’ dichiarati non imputabili, con misure di sicurezza che prescrivono l’obbligo di cura presso i Centri di Salute Mentale, ma senza tutela per i sanitari rispetto alla violenza, di fatto assegnatari di una improbabile posizione di garanzia intesa come obbligo a impedire i reati. In egual misura si sono espanse le segnalazioni da parte delle Forze dell’Ordine su ‘disturbi della condotta’, in una sorta di equivalenza fra devianza e malattia.

Non è un caso se i Dipartimenti di Salute Mentale si svuotano di psichiatri. Che fare? Il principio è distinguere la cura dal problema giudiziario. La legge che ha disposto il superamento degli OPG richiede un completamento: riformare la parte del codice penale sulle misure di sicurezza e pericolosità sociale.

1. Modificare l’impianto delle misure di sicurezza ‘psichiatriche’, che in base ai reati e alla loro attualità nel comportamento, se violento, andrebbero transitoriamente applicate anche in regime di detenzione in carcere.

2. Nelle REMS, andrebbe consentito l’intervento delle forze dell’ordine rispetto a comportamenti violenti, e così negli altri ambiti sanitari. Inoltre, l’inserimento d’autorità degli autori di reato in Comunità Terapeutiche o nei reparti psichiatrici, non può essere una sorta di detenzione alternativa, prescindendo da valutazioni cliniche.

3. Andrebbe ridotta in modo imponente l’attribuzione della non imputabilità per malattia mentale in relazione a un fatto di reato, assumendo requisiti estremamente restrittivi, con particolare riguardo alle condotte antisociali associate ai cosiddetti disturbi di personalità.

4. Ma un più radicale ripensamento giuridico porterebbe alla abolizione del cosiddetto ‘doppio binario’, fra cittadino ritenuto responsabile delle proprie azioni e soggetto alla pena, e persona malata e quindi non imputabile ed esclusivamente da curare. Si tratta di abolire ‘l’incapacità di intendere e volere al momento del fatto’. La grave malattia potrà divenire la condizione sospendente la pena, ma una sospensione da intendersi come proposta di cura per l’autore di reato in base al suo comportamento, senza elidere il suo diritto alla pena (anche nell’aver diritto a un fine pena), qualora a tale cura non collaborasse o reiterasse violenza.

In conclusione, assumendo l’umano come interiormente diviso fra bene e male, dotato di responsabilità e libertà etica, va inteso che la persona non viene sostituita dalla malattia, né vi si sostituisce lo psichiatra.

Dott. Roberto Lezzi
Psichiatra, Direttore Dipartimento di Salute Mentale ULSS 6 Euganea



26 maggio 2023
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