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Dirigenza pubblica. Il cambio generazionale non basta, serve un salto culturale

di Aldo Di Benedetto

15 APR - Gentile Direttore,
in questi giorni l’attenzione del Governo e dei media si è concentrata sulla riforma della dirigenza pubblica, ritenuta responsabile dell’eccessiva burocratizzazione della PA, causa di effetti pregiudizievoli nei confronti della società civile e freno allo sviluppo dell’economia. Se è pur vero che si sono create logiche di “casta”, che hanno reso le organizzazioni pubbliche connotate da rigidità e autoreferenzialità, bisogna considerare che la cultura della dirigenza pubblica, compresa quella sanitaria, è informata da modelli e logiche di gestione antiquate che, a mio parere, non saranno superate con un semplice ricambio generazionale.

Non ci deve sorprendere che anche il management del settore privato è sotto accusa, ritenuto, a sua volta, responsabile della crisi economica in atto. E’ significativo che ogni anno in Europa e negli Stati Uniti circa 150.000 studenti conseguono il Master in Business Administration; nel mondo circolano oltre due milioni di diplomati MBA di cui il 70% ricopre posizioni di senior manager in grandi aziende. Sulla base di queste informazioni non possiamo certamente credere che le aziende siano sprovviste di competenze manageriali.

Eppure, come sostengono Henry Minzberg e Gary Hamel, il management è in piena crisi e una delle cause principali della crisi economica e finanziaria è dovuta proprio alle prassi manageriali, caratterizzate da miopia gestionale, lentezza decisionale, paralisi strategica, scarsità d’innovazione. Ciò nondimeno, si chiede l’economista Alessandro Cravera, “le cause di questa crisi sono legate all’utilizzazione delle classiche ricette manageriali oppure sono le ricette derivate dalla cultura del management che andrebbero riviste?”. In una monografia dell’edizione italiana Harvard Business Rewiew, dal titolo “Abbracciare la complessità” Enrico Sassoon sostiene che “Il punto focale sembra essere costituito dal fatto che, con l’aumento dell’interdipendenza e dell’interconnessione (o iper-connessione), non basta più tenere sotto controllo le pur numerose variabili: è divenuto indispensabile guardare al sistema nel suo insieme per cercare di capirne il comportamento e, se possibile, la direzione di marcia”. E’ questa un’affermazione che stimola una profonda riflessione sulla dottrina del management, ancorata alla ricerca ossessiva di produttività, che utilizza ancora i classici principi, tesi alla riduzione dell’incertezza dell’ambiente esterno attraverso la programmazione, la procedurizzazione e il controllo delle molteplici variabili in gioco.  

Eppure da quando Taylor, alla fine del 1800, ha coniato i principi del management, la società è molto cambiata ma le organizzazioni, sia private che pubbliche, si comportano ancora come macchine che rispondono a una razionalità assoluta, inadeguata ai nostri giorni. Evidentemente, i profondi mutamenti negli scenari sociali ed economici, globalizzati e interdipendenti, la crisi di sistema, il conseguente senso di smarrimento e d’incertezza nel futuro, richiedono un cambiamento culturale profondo, che potremmo definire paradigmatico ed epistemologico. Come sostiene Edgar Morin “più i problemi diventano multidimensionali, più c’è l’incapacità di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità a pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più diventano impensati”.

Seppur con le sue peculiarità rispetto al settore privato, anche la dirigenza pubblica dovrebbe perseguire una formazione culturalmente adeguata ai tempi. Gli ultimi Rapporti annuali sulla formazione nella P.A. della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione hanno evidenziato un deficit di competenze manageriali nel settore pubblico, accentuato da una crescente difficoltà di gestione della complessità, dalla perdita di efficacia e di efficienza dell’azione, dalla tensione sulle risorse, dalla turbolenza del quadro ambientale di riferimento.

Il management pubblico, pertanto, si trova di fronte a una grave empasse e a poco serviranno le innovazioni strumentali, tra cui l’informatizzazione delle procedure e dei provvedimenti, senza un profondo rinnovamento culturale. Gli stessi processi di riorganizzazione delle risorse umane, di revisione e di razionalizzazione della spesa, non sortiranno i loro benefici effetti se non saranno accompagnati da una rinnovata formazione manageriale. In un incontro con le rappresentanze dei dirigenti pubblici, il commissario per la spending rewies Carlo Cottarelli, ha dichiarato che ”Bisogna passare da un modello che vede i dirigenti esecutori di regolamenti, talvolta molto vincolanti, a un modello di manager pubblico con flessibilità nella gestione delle risorse e maggiori responsabilità”. Un’affermazione questa che mette in luce una delle criticità fondanti l’attuale organizzazione e gestione delle pubbliche amministrazioni.

D’altronde, è imposta un’organizzazione fatta a tavolino, basata su troppa gerarchia e troppo poco spirito di comunità, che non è in grado di ispirare le persone a fare di più e meglio. A parere dell’illustre economista Gary Hamel “In una burocrazia sei un fattore di produzione, in un comunità contribuisci a portare avanti una buona causa”. Per questo, la cultura della complessità, apre un nuovo orizzonte alle diverse discipline scientifiche e umanistiche, ivi compresa la dottrina del management e, concetti come flessibilità strategica, autorganizzazione, disorganizzazione creativa, network organization, learning organization, condivisione, rappresentano un nuovo approccio scientifico che, a ragione, si può definire “management della complessità”.

Concludo questo mia riflessione con una citazione dello scienziato Ignazio Licata “Management non è soltanto gestione delle risorse, è anche gestione della conoscenza”.

Aldo Di Benedetto
Dirigente medico SSN


15 aprile 2014
© Riproduzione riservata

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