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Fine vita. Riparliamone

di Fabio Cembrani

11 GEN - Gentile Direttore,
il testo base del Ddl unificante elaborato dal Comitato ristretto della Camera dei Deputati recante “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari” ha riavviato la discussione su alcune tematiche sensibili che sembravano essere state espulse dall’Agenda parlamentare.
 
Se ciò è positivo, a me pare però che il Ddl, così come approvato, esprima molte zone d’ombra ed alcune evidentissime criticità che sarebbe utile discutere e portare all’attenzione del dibattito pubblico.
 
La prima riguarda il quomodo del consenso informato che la proposta indica sempre e costantemente in forma scritta (art. 1, co 5); la seconda riguarda il costante riferimento alla capacità di intendere e di volere della persona che il d.d.l. pone come condizione di validità delle direttive anticipate di trattamento (DAT) confondendola con la moral agency della persona; la terza riguarda le diverse formalità di espressione della volontà anticipata e della pianificazione anticipata delle cure.
 
Parto da una premessa di carattere generale: il consenso informato è una locuzione che dovrebbe essere abbandonata anche dal linguaggio giuridico essendo il precipitato nella lingua italiana di un termine composto inglese (informed consent) ed il risultato di una banale ed infelice operazione di translitterazione linguistica. Mi chiedo, da anni, come il consenso possa non essere informato anche se la formazione della volontà decisionale della persona richiede non già un’informazione ma un processo di comunicazione (di condivisione del certo e dell’incerto) e di ascolto.
 
Combatto da tempo perché questo termine sparisca dal lessico (anche professionale) essendo convinto che le parole non sono mai neutrali (cfr. Pugiotto, 2014), che il consenso informato è la porta che apre alla burocratizzazione del care e che questo termine straordinariamente ambiguo dovrebbe essere sostituito con la volontà (autodeterminazione) della persona competente. La quale apre alla sua dignità per i nessi costituzionali indiretti che pur ci sono tra di essa e la libertà (cfr., G.M. Flick, 2015).
 
Spinge verso l’ulteriore burocratizzazione del care anche il  quomodo espressivo di questa libertà visto che il d.d.l. lo individua, sempre e comunque, nella forma scritta. Formalità oggi cirscoscritta dal legislatore dell’urgenza a specifiche e ben circoscritte marginalità cliniche (trasfusione di sangue e di emoderivati, trapianto di rene da viventi, interventi di procreazione medicalmente assistita, arruolamento in trials clinici sperimentali ed utilizzo di farmaci in modalità non label per le interferenze esercitate al riguardo dall’art. 13 del Codice di deontologia medica). Prevedere la via scritta come unica e sola forma di raccolta e deposito della volontà della persona è una soluzione pericolosa che trasferisce il care nei meandri del contratto negoziale il quale richiede, per la sua validità, formalità procedurali che devono essere soddisfatte, pena la sua nullità.
 
Questa soluzione andrà sicuramente ad ipostatizzare la relazione di cura acuendo l’esplosione di moduli di consenso informato per ogni processo clinico che si chiederà alla persona di firmare inserendo in essi tutti i possibili rischi possibili ed inimmaginabili allo scopo di evitare di avere guai, vista anche la previsione testuale dell’art. 1, comma 7, del d.d.l. (esonero dalla responsabilità penale e civile).
 
La previsione, se confermata, otterrà il risultato opposto a quello che ci si auspica se l’obiettivo del d.d.l. è realmente quello di provare a riumanizzare la relazione di cura pensando che essa è un trafficato crocevia in cui la cui circolazione non è guidata né dalle convenzioni, né dalla segnaletica stradale né dalle lanterne semaforiche ed in cui si immettono veicoli che portano targhe molto diverse: non solo quella degli attori principali (la persona ed il medico) ma anche la targa del team di cura, delle diverse categorie professionali in esse rappresentate, dei familiari della persona, della rete amicale, delle organizzazione sanitarie e della società più in generale vista la posizione di garanzia che l’ordinamento affida al medico.
 
Si tratta, quindi, di un crocevia in cui non si incontrano due soli principali attori come si continua a pensare quando si parla di alleanza terapeutica perché il traffico veicolare è molto sostenuto con la conseguenza che molti sono gli ingorghi e le intersezioni delle relazioni dirette ed indirette, personali e simboliche; mai statiche ma sempre dinamiche ed i cui salti ed interruzioni non dipendono dal solo grado delle conoscenze e dalle abilità dei protagonisti principali ciò determinando una serie di criticità che non si possono banalizzare attraverso la predisposizione a tavolino di moduli di consenso informato che saranno studiati con un obiettivo principale: quello di precostituire cause di giustificazione raccogliendo la firma olografa della persona a cui sono stati esplicitati tutti i possibili rischi ed effetti collaterali di ogni percorso di cura.
 
Seconda questione: la capacità di intendere e di volere e la moral agency (cioè la capacità della persona di esprimere la sua volontà) non sono un’endiadi ma situazioni ampiamente diverse.
 
La prima è, infatti, un’attitudine della persona giuridica risultando dal combinato funzionamento di due diverse capacità: quella di intendere (di rappresentare il valore ed il disvalore giuridico delle azioni) e quella di volere (di determinarsi, cioè, in modo coerente con le rappresentazioni mentali.Una capacità, la prima, di carattere sostanzialmente razionale ed una capacità, la seconda, di mantenere saldo il controllo razionale sulle emozioni, sui sentimenti e sulle passioni per agire comportamenti ritenuti doverosi (e legittimi) dall’ordinamento.
 
Pacificamente, essa presuppone un mondo di obblighi dati dall’ordinamento giuridico che fornisce un insuperabile (tassativo) elenco delle infrazioni e delle sanzioni previste nell’ipotesi di una loro violazione.
 
Da ciò una libertà di azione limitata e condizionata dalla lex poli  che è il tessuto vitale all’interno del quale prende forma e dimensione la capacità di intendere e di volere: capacità che è così chiamata a confrontarsi con questo mondo esterno, popolato da libertà di tipo sostanzialmente negativo, che vive, in questa prospettiva, indipendentemente da ogni nostra biografia personale, dai nostri valori di riferimento, dai principi educativi che ci sono stati dati, dalle attese, dai nostri desideri, dalla parabola di vita che ciascuno di noi ha scelto responsabilmente di percorrere, dalla nostra umanità identitaria e, in ultima analisi, dalla nostra stessa idea di dignità. In termini ancor più ampi, dalla nostra memoria personale e dalla promessa che ciascuno di noi storicizza in ogni scelta di vita.
 
Da una biografia identitaria che è pur fatta di carne,  di umanità, da un io irripetibile chesi confronta con il noi delle relazioni personali e dei nostri affetti o, con una parola spesso abusata, da una coscienza individuale continuamente lacerata, quotidianamente e faticosamente ricostruita per dare ad essa una qualche forma di coerenza: cosa che richiede l’integrità della memoria, di ricordare ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare nel nostro arco di vita per realizzare, di conseguenza, quei progetti che ci siamo dati come obiettivo da realizzare.
 
Anche se quest’idea può essere considerata alla sola condizione (teorica) che la parabola di vita sia di tipo lineare e che la nostra vicenda umana non sia interferita da difetti o rotture che incidono la nostra percezione del sé e quell’identità narrativa che è la base di ogni progetto di vita. In questa chiave di lettura, la persona umana capace di intendere e di volere è una maschera che l’ordinamento giuridico disumanizza proprio riguardo ai principi ed ai valori personali ponendola in relazione ad una sola parte del mondo esterno: quella della legalità e dell’ordine costituito che, naturalmente, tiene in principale conto gli interessi comuni e quelli collettivi.
 
E non certo in modalità soft viste le sanzioni previste dall’ordinamento per ogni nostra infrazione alla legge scritta,  finalizzate, evidentemente, a far soffrire il colpevole per la colpa commessa ma con una responsabilità, per così dire, ridotta e scotomizzata, considerata nella sua sola prospettiva negativa; come impedimento che lo Stato di diritto impone a ciascun cittadino e che lo pone di fronte alla sola ed esclusiva violazione della norma.
 
Diversamente, la moral agency. Perché essa, al di là dei diversi orientamenti filosofici che pur esistono, è un’attitudine della persona umana che chiama in causa le sue libertà positive che non sono né illimitate né incondizionate. Libertà che, pur condizionate essendo circoscritte dall’ordinamento, esprimono la capacità della persona di avere, oltre agli interessi critici, anche interessi di esperienza, di provare gioia e dolere, di avere sentimenti e di formulare giudizi di valore. indipendentemente dalla loro coerenza sul piano della biografia personale.
 
Assumendo decisioni che - diversamente dalla capacità di intendere e di volere che pur le condiziona attraverso i divieti e le sanzioni - supportano ogni nostro processo di individuazione e di coscientizzazione anche simbolica; con una espressione della libertà in direzione aperta, costruttiva e coerente con ciò che siamo, pur con i condizionamenti provenienti dal mondo esterno, dai legami sociali ed affettivi, nel rispetto dei nostri valori di riferimento e della nostra stessa idea di dignità.
 
In una prospettiva ampia che, pur nel rispetto delle prescrizioni date dall’ordinamento, ci consente di esprimerci per ciò che siamo e di sviluppare gradualmente e progressivamente la nostra stessa identità e personalità. Lungo un arco di vita che non è quasi mai di tipo lineare, per le sue variabili cronologiche ed esperienziali ed all’interno del quale la persona umana sviluppa il suo processo di individuazione e di graduale presa di coscienza; non solo in virtù delle esperienze provenienti dal mondo sensibile ma, soprattutto, grazie alla memoria ed alla promessa.
 
Perché la memoria ci consente di dare sostegno all’identità personale nonostante le sue trappole ed i fenomeni di oblio che sono giunti al punto estremo di negare i crimini e le atrocità commesse contro l’umanità nel secondo conflitto bellico nei lager nazisti. E perché la promessa, nonostante i sempre possibili tradimenti, ci permette di rivolgere lo sguardo al futuro e di mantenere l’integrità di quel sé che si genera nella fedeltà alla parola data, nell’affidabilità che ci consegna a noi stessi in quella dimensione fiduciaria che ci riappacifica con la concezione agostiniana del tempo recuperandone, soprattutto, gli spunti non metafisici.
 
Dato che la memoria crea sempre un ponte con il passato, mentre la promessa è la piattaforma e la base di lancio del futuro. In questa dimensione, straordinariamente umana, vitale, non astratta e non condizionata dai soli precetti prescrittivi deve essere collocata la moral agency della persona umana. Rappresentando, essa, la capacità di autodeterminazione che dobbiamo valorizzare come una scelta sostanzialmente e prioritariamente morale.
 
Capacità di intendere e di volere e moral agency non sono, dunque, un’endiadi pur dovendone ammettere i punti di contatto. Perché le libertà positive della persona umana non possono certo prescindere dai divieti fissati dall’ordinamento giuridico e perché entrambe prevedono un doppio binario di giudizio.
 
Il primo, uguale in entrambe, ad ambedue, è di tipo descrittivo essendo finalizzato ad individuare l’esistenza di una infermità che non è sempre e solo di mente. Il secondo è di tipo esplicativo, con una prospettiva però diversa: di tipo psichiatrico-forense nel caso della capacità di intendere e di volere che deve sviluppare il profilo criminodinamico e quello criminogenetico; in prospettiva biografica, invece, per la moral agency che richiede di essere considerata (ed esplorata) in riferimento all’identità di quella specifica persona posta in quel determinato contesto di vita.
 
Investendo, quest’esplorazione, tutta una serie di luoghi o di abilità funzionali sulle quali esiste un sufficiente accordo nella letteratura internazionale [appelbaum et al.,  2007] che le ha indicate:
(a) nella capacità di manifestare una scelta; (b) nella capacità di comprendere le informazioni, (c) nella capacità di dare un giusto peso alle medesime, (d) e nella capacità di utilizzare razionalmente le informazioni. Suggerendo, di conseguenza, l’utilizzo di strumenti standardizzati, come ad es., la MacCAT-T e MacCAT-CR (specifica per l’arruolamento delle persone in trials clinici sperimentali) impiegati per ridurre la soggettività clinica anche se questi strumenti faticano a trovare un ampio utilizzo nel contesto clinico italiano anche perché non ancora validati.
 
Abbandonando definitivamente quei pregiudizi che la confondono con la capacità di intendere e di volere, quegli stigmi in ragione dei quali le malattie dementigene la comprometterebbero sempre e comunque e quelle becere ed (a)tecniche prassi purtroppo diffuse che la esplorano con batterie neurotestistiche elaborate per altre finalità (il MMSE primo tra per tutti) riconoscendo ad esse un potere, per così dire, taumaturgico nel differenziare la capacità dall’incapacità sulla base di discutibilissimi valori soglia (pre)definiti non si capisce bene sulla base di quali evidenze scientifiche.
 
Terza questione: la modalità di espressione delle DAT che devono essere “scritte, sottoscritte davanti ad un pubblico ufficiale, a un medico o a due testimoni o attraverso strumenti informatici di comunicazione” (art. 3, comma 4) e della pianificazione anticipata della cura (che deve essere scritta, o video registrata, sottoscritta e validata dal paziente e dal medico curante come indicato dall’art. 4, comma 4, del d.d.l.).
 
Perché non capisco le ragioni di questa pacifica asimmetria visto che le due modalità espressive della volontà riguardano situazioni simili pur evidenziando che le DAT sono di regola una prerogativa della persona sana e che, viceversa, l’advance care planning è una opzione che riguarda persone affette da una “patologia cronica e invalidante” (art. 4, comma 1). Ritengo una vera e propria violenza pensare che la mia disposizione anticipata di trattamento sia da sottoscrivere in presenza di due testimoni e, addirittura, da un pubblico ufficiale che la norma dovrebbe peraltro meglio qualificare.
 
Pensare poi che queste quattro persone si possano trovare assieme, in un momento unico, per la redazione della DAT è una previsione che tradisce la sua non applicabilità pratica continuando a credere che sia i protagonisti di questa fase siano sostanzialmente due: la persona (ed il fiduciario dalla stessa nominato) ed il medico che la deve aiutare a risolvere le ansie, i dubbi e le paure ed a tradurre la sua volontà in contenuti chiari e non opinabili.
 
Un’ultima questione riguarda il fiduciario.
Non capisco perché il ruolo e la funzione di questa figura non sia stata meglio esplicitata recuperando l’esperienza ad es. del Code francese e non mi è chiara la ragione del perché, in sua assenza, i familiari vengano ad assumere il medesimo ruolo.
 
E se tra i familiari (di quale ordine e grado?) ci fossero divergenze di pensiero come spesso accade di osservare, quale è, infine, l’autorità che deve fugare i dubbi e risolvere i dissidi? E se non ci fossero familiari presenti o comunque reperibili?
 
Occorre, a mio modo di vedere, meglio collegare il ruolo del fiduciario con il ruolo di proxy svolto dai familiari della persona detendendo le questioni che potrebbero originare quando più soggetti sono legittimati ad esprimere il loro punto di vista come insegna la vicenda umana di Vincent Lambert sulla quale si è recentemente espressa la Corte di Giustizia europea.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Trento

11 gennaio 2017
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