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I nostri infermieri apprezzati all’estero e bistrattati in Italia

di Stefano Bazzana

04 MAR - Gentile Direttore,
dopo aver letto, anche dalle vostre pagine, i paradossali casi dei colleghi di Ancona e Perugia, mi sono chiesto fino dove dobbiamo scendere (in qualità) e rischiare (in sicurezza), prima di renderci conto che bisogna invertire la rotta. Alla nostra attenzione arrivano segnalazioni fortunatamente non così gravi ed eclatanti, anche se la sofferenza legata al continuo impoverimento degli organici si sente molto anche nella nostra provincia, dove, per risparmiare, purtroppo è molto frequente la sostituzione di professionisti con operatori tecnici (di certo non giova la recente riduzione di 420 milioni al Fondo Sanitario).

In particolare i giovani neolaureati patiscono il doppio fenomeno del precariato e di un subdolo sfruttamento/demansionamento, lesivi della dignità di una professione nobile con un alto valore sociale e morale, come dichiarato dall’OMS. Francamente si è toccato il fondo con una direzione ospedaliera che sanziona un infermiere, perché dichiara di non essere in grado di tornare in turno di pomeriggio, dopo aver lavorato in reperibilità per 14 ore durante la notte in sala operatoria!

Per questo ho molto apprezzato l’intervento della presidente nazionale Barbara Mangiacavalli che, scrivendo al ministro Lorenzin, ha chiesto un immediato intervento onde evitare che si ripetano fatti in cui infermieri ormai prossimi alla pensione sono licenziati o inviati in commissione disciplinare per non essere “fisicamente” riusciti ad adempiere non al loro dovere, ma alla mole di lavoro extra di cui sono caricati oggi i colleghi per la carenza di organici nelle strutture sanitarie.

Il Servizio Sanitario Nazionale continua infatti a perdere personale (oltre 40.000 unità in 5 anni) soprattutto a subire il colpo sono gli infermieri, 2.788 in un solo anno! E questo è un vero paradosso se si pensa che i dati OCSE confermano la mancanza di 60.000 infermieri in Italia, rispetto alle medie degli altri paesi.
 
Abbiamo fatto un’indagine a livello provinciale per conoscere il dato dell’occupazione infermieristica. Complessivamente sono più della metà i neolaureati occupati nell’ambito della nostra provincia. Anche se quasi due su tre di coloro che lavorano, dichiarano di non essere autonomi economicamente.
Ad un anno dalla laurea oltre il 70% dei nostri iscritti ha una qualche forma di occupazione. Di questi circa il 40% sono dipendenti a tempo determinato nel privato (soprattutto Fondazioni RSA), solo il 7,5% nel pubblico, il 28% di loro ha aperto Partita Iva e il restante 24,5% ha trovato lavoro fuori provincia, regione o all’estero.

Infatti all’Ipasvi di Brescia, risultano 125 richieste di certificazione “good standing” negli ultimi due anni. Dopo la laurea, anche per evitare di perdere le competenze acquisite in università, sono molti i giovani bresciani che decidono di fare un’esperienza all'estero. Li abbiamo incontrati a Londra nel corso di un viaggio-studio in occasione della Conferenza mondiale per i 100 anni del Royal College of Nursing, dove è stato accettato un nostro lavoro scientifico. Abbiamo raccolto e pubblicato le esperienze di questi nostri concittadini (che noi ovviamente auspichiamo rientrino per contribuire al cambiamento), dalle quali emerge il forte riconoscimento per la professione e la grande differenza fra la cultura meritocratica tipicamente anglosassone e il nostro sistema piuttosto ingessato, a partire dal contratto fermo da 8 anni e dai modelli organizzativi obsoleti.

I nostri dati (che si basano su 119 questionari restituiti su 261) sono leggermente migliori in termini di occupazione rispetto ai dati nazionali (Almalaurea) secondo cui circa il 60% trova un impiego ad un anno dalla laurea. Ciò che accomuna ogni indagine di questo tipo, tuttavia, è che si tratta di lavoro precario e comunque spesso a rischio di abusi e irregolarità. Per questo esistono in Collegio esperti disponibili a fare colloqui e tenere corsi per compiere “i primi passi” nella libera professione. Mentre per i cittadini, con un click è possibile verificare sul sito www.ipasvibs.it quali infermieri sono disponibili nella propria area della provincia e con quali competenze.
Uno sbocco occupazionale importante è rappresentato dalle previsioni della Riforma del Servizio sanitario lombardo anche se rincresce dover constatare che in 4 anni dal Libro bianco e quasi due dalla Legge 23/2015 non si sono fatti molti passi avanti. I Collegi lombardi, nonostante le iniziali perplessità dovute agli scandali, hanno investito tempo e risorse nel cercare di sperimentare quanto previsto dalla legge di riordino, consci che veniva chiesto ai professionisti di non ragionare più per “silos assistenziali” (edifici di cura) ma per target assistenziali, ossia con il focus sui bisogni delle persone che attraversano i diversi setting di cura.

Sappiamo che questi target assistenziali sono almeno quattro: cittadini sani, pazienti cronici (3,6milioni in Lombardia), non autosufficienti (400mila), e acuti. E queste quattro categorie attraversano tutti i setting. Viene chiesto alle strutture organizzative di essere sempre meno luoghi, e sempre più processi, ma i POAS (Piani organizzativi delle nuove Aziende Sanitarie) non sono ancora stati approvati dalla Regione. Altro punto inapplicato ma che poteva essere strategico è il ruolo dei Comuni che, con la valorizzazione delle comunità locali, doveva caratterizzare questo riordino mentre invece pare rimanere, ancora una volta, drammaticamente sulla carta.

E qual è (o quale potrebbe essere) il contributo della professione infermieristica?

Sulla riforma come Ipasvi stiamo dialogando con i referenti regionali, inoltre abbiamo inviato varie note ai responsabili delle aziende sanitarie per proporre e intraprendere percorsi nuovi, anche clinico/assistenziali, con sperimentazioni da attuare (come già fatto in altre regioni) per dimostrarne la risposta appropriata ai bisogni crescenti della cronicità ed economicamente sostenibili o addirittura vantaggiosi.

Esempi: risposta sul territorio ai codici bianchi (attraverso gli ambulatori) o alle richieste di consulenza per monitoraggio parametri, sicurezza ambientale, aderenza alle terapie, corretti stili di vita, con riduzione accessi impropri al Pronto Soccorso o ricoveri ospedalieri inutili. Superamento voucher ADI a favore della presa in carico da parte del Servizio dell’Infermiere di famiglia o percorsi condivisi medici/infermieri (es. POT, Presidio Ospedaliero Territoriale). Purtroppo invece assistiamo inermi allo smantellamento di strutture territoriali storiche, che potrebbero essere riconvertite, a causa della frammentazione nella governance tra sanitario e socio-sanitario.. Proprio il contrario di quanto vorrebbe la riforma!
 
Una recente delibera regionale sulla cronicità ci ha un pò spiazzato, dato che stavamo iniziando a sperimentare la figura dell’infermiere di famiglia insieme ai medici di medicina generale (come parrebbe logico). Invece si affidano i cronici a nuovi “gestori”, erogatori pubblici e privati in competizione tra loro, con il rischio di creare ulteriore frammentazione se questi non avranno tutte le risorse e i servizi per dare una risposta completa e continua alle persone prese in carico. I distretti hanno perso la funzione di coordinamento della rete dei servizi diventando troppo grandi, mentre si accentuano gli aspetti economici e contrattuali del sistema.
 
L’infermiere di famiglia doveva essere la risposta ai bisogni delle persone che sempre più vengono dimesse precocemente, dato che si associa all’aumento della cronicità e fragilità, che riguarda oltre un terzo della popolazione. Ormai però si sono perse le tracce dei 90 milioni di euro impegnati dalla regione nel bilancio precedente. Eppure la Legge 23 pone il Servizio dell’Infermiere di Famiglia nell’ambito dell’Agenzia di Tutela della Salute (ex ASL), quindi logica vorrebbe che ci fosse almeno un collega o uno staff in questa struttura quale riferimento per i tanti infermieri che invece svolgono la funzione erogatrice del servizio stesso, in capo agli ospedali (ASST) come deciso dalla norma stessa. Per trovare un aspetto positivo bisogna pensare all’ambito formativo: recentemente si è avviato a Brescia il master dell’Università Cattolica per infermieri e ostetriche di Comunità. Occorre infatti produrre un sapere per competenze distintive, sperimentare e pubblicare i risultati dei lavori. Noi restiamo disponibili a sperimentare con tutti gli altri stakeholder queste nuove aree, per comprendere a livello territoriale quale impatto i progetti possano avere e che prospettive possano offrire in termini di salute sulla popolazione.
 
A questo proposito gioca un ruolo fondamentale l'integrazione fra le professioni.
Oggi è impensabile rispondere ai bisogni del malato in una logica monodisciplinare, oppure confrontandosi solo tra gruppi monoprofessionali. Compartimenti stagni, che esitano in comportamenti stagni. La vera interdiscliplinarità parte dal rispetto dei diversi saperi e delle competenze, spesso complementari ma distinte. E' essenziale dunque partire da una formazione rinnovata, dove non soltanto le “altre” professioni sanitarie conoscono il ruolo del medico ma anche viceversa. In Spagna ad esempio medici e infermieri si formano nelle stesse aule. A quando anche da noi?
 
Dott. Stefano Bazzana
Presidente IPASVI Brescia 


04 marzo 2017
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