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Scuole di Specializzazione. Meglio una evoluzione che una rivoluzione

di Carlo Liguori

19 SET - Gentile Direttore,
desta sollievo e sincera fiducia la notizia, pubblicata da Quotidiano Sanità lo scorso 17 settembre, relativa al cronoprogramma stabilito congiuntamente da Ministero della Salute e MIUR relativo alle procedure di espletamento dell’atteso concorso di ingresso nelle Scuole di Specializzazione.
 
Il dato che rasserena maggiormente e che speriamo non venga disatteso, è quello relativo all’inizio delle attività di servizio dei prossimi specializzandi, fissato entro il 2017; questo aspetto è confortante non soltanto nell’interesse dei colleghi che da mesi attendono di poter iniziare il percorso di formazione ma anche per scongiurare che per un’intera annualità il nostro Servizio Sanitario possa, tra 4-5 anni, rimanere completamente a digiuno di neospecialisti.
 
I dati enunciati nel provvedimento congiunto dei due Ministeri lasciano intendere che il numero di borse statali si attesterà a 6105, come contemplato nel decreto ministeriale del 10/8/2017 (GU 6/9/17) che abrogava l’analoga Norma del 2015 (DM 48/2015).

E’ questo un aspetto non trascurabile e poco soddisfacente se si considera che, qualora non venga modificato, configurerebbe uno scenario addirittura peggiorativo rispetto al provvedimento precedente del 2015; in questa condizione infatti verrebbe ulteriormente penalizzato il rapporto tra i posti messi a concorso e il fabbisogno stimato di specialisti (valutato in 7967/anno), numeri ancor più gravosi se rapportati ai 9796 ingressi annui ai corsi di laurea in Medicina in tutta Italia (circa 8000 laureati/anno). Sarebbe opportuno iniziare ad ipotizzare un numero programmato di accessi alle scuole di Specializzazione, basato sui reali fabbisogni della popolazione di laureati o in alternativa attivare un meccanismo di “sincronizzazione” tra numero di accessi ai corsi di Laurea e Specializzazione, contemplando solo ragionevoli percentuali di sforamento, ma evitando che annualmente si consumi un parcheggio forzato per giovani medici, che finisce spesso con alimentare la fuga dei colleghi verso altre Nazioni.

L’auspicio insomma è che una volta definita in termini di accreditamento delle Scuole e modalità di espletamento delle prove la riforma possa essere perfezionata rivalutando anche i numeri delle borse.
 
Un perfezionamento dunque e non una rivoluzione come invece paventato da più parti in queste settimane di latitanza di notizie certe sul concorso. In tanti si sono espressi sulla opportunità di riformare “anatomicamente” il corso di Specializzazione trasformando il medico in formazione in operatore non specialista degli impoveriti reparti dei nostri ospedali, all’interno dei quali il giovane laureato dovrebbe maturare le conoscenze che ne faranno uno specialista a tutti gli effetti.
 
Questo genere di soluzione mi lascia perplesso per diverse ragioni.
Innanzitutto sono convinto che le Università’ ed i Policlinici Universitari costituiscano il territorio più adatto alla formazione dal momento che sono sedi “addestrate” alla didattica, che non può e non deve essere soltanto pratica ma che si compone di una fase teorica che necessita di personale dedicato e strutture logisticamente idonee.

Il mio non è un rigetto della rete formativa ospedaliera, senz’altro decollata in maniera disomogenea tra le varie sedi universitarie: riconosco anzi che questa embricatura policlinici-ospedali vada potenziata rimanendo tuttavia un momento del percorso formativo e non diventandone l’unica dimensione. Essa infatti è utile ai giovani specializzandi per avere un assaggio della sanità extrauniversitaria che molti di loro abbracceranno dopo la specializzazione e al tempo stesso agevola la creazione di contatti che potranno essere spesi nel postspecialità.
 
Introdurre nelle corsie ospedaliere laureati non specialisti ho l’impressione che possa essere un improvviso salto nel passato di cui non abbiamo bisogno; la scelta potrebbe essere letta con un’occasione di rinnovata “gerarchizzazione’ dei medici del SSN di cui francamente i giovani non credo sentano il bisogno e al tempo stesso non ritengo possano beneficiare pazienti e sistema sanità in senso lato. Aggiungo inoltre che fornire un contratto “a tempo determinato”, per il periodo necessario ad acquisire il titolo di specialista, rappresenterebbe una manovra di seduzione effimera se non si è poi in grado di programmare con serietà quello che ai colleghi spetta al termine del contratto stesso.

Si tenga poi presente che per la Radiologia il problema normativo sarebbe consistente dal momento che la nostra disciplina prevede il possesso del titolo specialistico per potere esercitare e dunque faccio fatica a immaginare come un laureato in medicina, intenzionato a diventare radiologo, possa accaparrarsi un contratto di lavoro in un reparto ospedaliero.
 
Non va poi dimenticato il momento storico particolare che la nostra sanità vive ed in particolare una delle sue più spinose problematiche contemporanee: i precari storici. Con quale strumento potremmo inserire forza lavoro laureata non specializzata negli ospedali badando a non ledere gli interessi di chi è già specialista, impiegato da anni in attesa di un contratto definitivo?
 
Molte nazioni europee (Francia, Regno Unito) prevedono in effetti il completamento dell’intero corso di specializzazione all’interno di realtà ospedaliere selezionate ma si tratta di sistemi formativi profondamente differenti dal nostro a partire dallo sviluppo del corso di laurea e con una differente transizione nel periodo post specializzazione. Probabilmente è meglio potenziare e eventualmente raffinare il modello già esistente e che comunque nonostante il definanziamento e le congiunture socio-economiche negative, partorisce ancora specialisti di riconosciuta eccellenza.

Carlo Liguori
Responsabile SNR Giovani
FASSID - SNR 


19 settembre 2017
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