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Il peso delle parole tra medico (e non solo) e paziente

di Francesco Marcheselli

01 GEN - Gentile direttore,
inizio riportando l’incipit di un recente articolo apparso su Jama che si rivolge al rapporto medico-paziente, ma il parallelismo col rapporto terapista-paziente credo possa essere immediato: “Ha detto che se continua così dovrò operarmi”; “Ha detto che è una calcificazione”; “Ha detto che ho la schiena di un settantenne”. “Mi ha scrocchiato tutto ma non ho capito perché”; “Alcune delle informazioni che i medici danno ai pazienti possono inavvertitamente amplificare i sintomi ed i dolori dei loro pazienti. Questo principio va ben compreso dai medici per poter assicurare una buona gestione del paziente e del percorso di cura”
 
Spesso ricevo in studio pazienti che sono prima stati a consultare altri professionisti. Alcune volte mi riportano come sono andati i precedenti colloqui e trattamenti, ed io li ascolto attentamente durante i loro racconti.
 
Quello che loro mi riportano spesso sono racconti, frasi, parole, che possono essere la realtà filtrata dalle ansie e preoccupazioni del paziente, oppure la realtà, riportata al meglio possibile, compatibilmente con le conoscenze tecniche del paziente stesso.
 
In questi anni, ascoltando molto attentamente questi racconti, ho imparato tanto sul peso delle parole pronunciate, e sull’importanze del colloquio medico/terapista-paziente.
 
Quando il terapista dice una cosa, deve fare molta attenzione alle parole che usa, e deve far molta attenzione a far sì che il paziente riesca a capirlo e comprenderlo.
 
Quando un paziente si rivolge ad un terapista (o ad un medico) ha un problema che lo preoccupa, che gli ha fatto prendere un permesso da lavoro per andare alla visita, si è incastrato la giornata ed ha preventivato una spesa economica: quando ci si rivolge al paziente bisogna tenere conto di questi aspetti per poter avere una comunicazione efficace.
 
Il medico non è un distributore di diagnosi e terapie, non è un portatore di buone/brutte notizie o un moralizzatore sul corretto stile di vita; allo stesso modo il terapista non è un manovale, un massaggiatore o dispenser di esercizi.
 
Nell’ambito della medicina manuale, l’operatore deve riuscire a trovare il canale comunicativo giusto con il paziente affinché la terapia somministrata sia la più efficace possibile.
 
Le parole hanno il potere di aumentare o diminuire l’effetto terapeutico dei farmaci somministrati (nel caso di un medico) o delle tecniche manuali utilizzate (nel caso di un osteopata o di un fisioterapista).
 
Gli effetti placebo e nocebo non sono “effetti collaterali” della terapia, ma vere e proprie armi terapeutiche che un bravo professionista deve sapere utilizzare, proprio come una tecnica  manuale od un esercizio terapeutico.
 
Aiutare il paziente a visualizzare i benefici del trattamento, a percepirne le sensazioni positive, è qualcosa che rinforza gli effetti curativi della seduta e fortifica nel paziente la volontà di perseguire la strada della salute.
 
Viceversa, usare termini troppo tecnici senza spiegarli adeguatamente (a volte anche per nascondere insuccessi o ignoranza), oppure fare nefaste previsioni sul decorso del dolore, fortifica nel paziente le emozioni negative e le preoccupazioni legate alla propria condizione di salute.
 
Bisogna ricordarsi che il dolore non è oggettivo, bensì è il risultato dell’elaborazione cerebrale dello stimolo doloroso. Gli studi dell’ultimo decennio sull’interocezione pongono le basi scientifiche per capire che la sensazione di malessere e dolore, oppure di benessere del paziente, non è sempre un’affidabile elaborazione centrale di ciò che avviene in periferia, ma può subire interpretazioni soggettive che possono essere fuorvianti.
 
Queste interpretazioni soggettive possono portare il paziente ad uscire dallo studio del terapista con più preoccupazioni o confusione di quando è entrato.
 
L’articolo del Jama suggerisce di cercare sempre di dedicare qualche minuto a fine seduta al colloquio finale, chiedendo al paziente se tutto è chiaro, se sono rimasti dubbi o preoccupazioni della quale vuole parlare, e personalmente non posso essere più d’accordo.
 
Ritengo fondamentale che il paziente esca dallo studio avendo capito a fondo:
• La natura del suo problema
• Il percorso terapeutico che si vuole intraprendere
• Quali possono essere i benefici o gli ostacoli alla guarigione
 
Se il paziente non ha le idee chiare su questi tre fattori, gli sarà difficile accettare che per star bene possa servire più impegno o più tempo del previsto, e questo rischia di minare la relazione terapeutica e conseguentemente i risultati dei trattamenti.
 
D’altra parte oggi si è creato un mix potenzialmente dannoso di maggior offerta terapeutica legata a promesse di rapidità d’efficacia: questo crea le basi per la gestione della salute come di un prodotto, e la scelta della cura in base alla convenienza. Recuperare il rapporto umano ed il rapporto di fiducia col paziente è ciò che riporterebbe il percorso di cura su una strada scientifico/umanistica e non scientifico/commerciale.
 
Parlando da Osteopata e Fisioterapista, ritengo fondamentali quei pochi minuti a fine seduta che si spendono per far percepire al paziente l’effetto positivo delle tecniche utilizzate, contestualizzarle in un percorso di recupero, ed aiutare la percezione dei cambiamenti rispetto a prima del trattamento. Che si tratti di un’articolazione più libera, di minor dolore, di un equilibrio più stabile, di un maggior senso di leggerezza, o di un respiro meno faticoso, sono tutti segnali interocettivi di un cambiamento positivo che il paziente deve percepire e fare suo per poter consolidare la fiducia nel percorso terapeutico.
 
Tutti questi segnali sono indicatori di un effetto del trattamento, che se non venisse percepito, vedrebbe diminuito il suo potenziale.
 
Dal canto suo il paziente ha il diritto di pretendere di uscire dall’ambulatorio avendo chiarito bene tutti i dubbi con i quali era entrato, avvertendo un beneficio dal colloquio o dal trattamento, e con una solida fiducia nel terapista e nel percorso da intraprendere.
 
Nel mio settore vedo tanti colleghi lamentarsi di concorrenza sleale di altre figure professionali o di colleghi che svendono e svalutano la professione: a mio avviso, ricominciare a recuperare una corretta relazione terapeutica è il modo migliore per aggiungere valore al proprio lavoro ed alla propria categoria professionale.
 
Francesco Marcheselli
Osteopata e Fisioterapista

01 gennaio 2018
© Riproduzione riservata

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