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40 anni dopo serve una nuova “riforma della riforma”

di Salvo Calì

13 NOV - Gentile Direttore,
ho trovato molto stimolante la riflessione di Filippo Palumbo sui 40 anni del nostro sistema sanitario. In proposito accennerò a due temi di grande attualità che impattano sulla quotidianità dell’assistenza sanitaria e dei servizi erogati ai cittadini: l’emergenza e la cronicità.
 
Il modello erogativo dell'assistenza sanitaria, come normato dalla L.833, è figlio del suo tempo, di quel tempo, e svela nell’attualità la sua parziale inadeguatezza, tanto da sollecitare negli osservatori più avvertiti la richiesta di una stagione di riforme. La legge 833 infatti eredita e ripropone in parte i modelli assistenziali preesistenti.
 
Da un lato una assistenza ospedaliera forte di una riorganizzazione in fieri cominciata con la legge 132 del 1968, che ha consolidato l’offerta ospedaliera, affinandola negli anni, incalzata da una capacità tecnologica e diagnostica crescente, anche attraverso opportune modifiche delle modalità di ricovero e dello stato giuridico del personale medico dipendente prima, dirigente a partire dal contratto del 1996, dopo il d.lgs.vo 502/92.
 
Il ricovero in ospedale è diventato sempre più selettivo, di breve durata e finalizzato all'intervento sulle patologie per acuti, respingendo in un limbo assistenziale tutto ciò che non ha una dignità di patologia espressa attraverso un DRG. Il passaggio del pagamento del ricovero ordinario dalla giornata di degenza al DRG, ha indubbiamente ‘efficientato’ il sistema, mettendo fuori dall'assistenza ospedaliera tutte quelle patologie e  quei problemi sanitari che non rientrano in uno schema codificato e che, invero, richiedono assistenza, rivolgendosi all’ospedale, perché all’ospedale continuano a riconoscere la capacità di una risposta esaustiva a un bisogno soggettivamente percepito come urgente o altrimenti non affrontabile.
 
La conseguenza immediata è l’affollamento del pronto soccorso, di cui esportiamo vergognose immagini in tutto il mondo, il cui modello organizzativo non è stato adeguatamente rivisitato, a fronte tra l’altro di una progressiva riduzione dei posti letto (10 p.l. per mille abitanti nel 1978, 3 posti letto per mille abitanti oggi), e della conseguente chiusura di ospedali e dei pronti soccorso annessi.
 
Certo il legislatore si è premurato a partire dagli anni ‘90 di riorganizzare il settore dell’emergenza urgenza affrontando il tema dell’emergenza territoriale e istituendo un sistema, il 118, che dovrebbe privilegiare le patologie acute da indirizzare in ospedale, anche attraverso percorsi mirati (reti tempo dipendenti, ecc.) e indirizzare altrove (dove?) il resto della domanda, quando comunque presenta un problema non risolvibile a domicilio. Appare quindi strategica l’adeguata organizzazione della rete dell’emergenza territoriale e la qualificazione del personale di primo soccorso che, stabilizzato il paziente, dovrebbe indirizzarne la destinazione avvalendosi del supporto della centrale operativa.
 
La regionalizzazione del SSN, figlia di un malinteso federalismo sanitario, ci propone oggi modelli con forti differenze da regione a regione con una interpretazione della funzione del 118 sempre più minimalista e residuale, non soltanto per le qualifiche professionali della dotazione organica del personale, ma anche per la filosofia che la ispira. La conseguenza inevitabile di queste politiche è un ulteriore peggioramento delle già difficili condizioni del pronto soccorso ospedaliero.
 
Sul versante della cronicità (sono anche i pazienti fragili quelli che ‘affollano’ il pronto soccorso e le problematiche degli ospedali e dell’emergenza e della cronicità non sono affatto disgiunte, ma qui non possiamo che schematizzare i temi), il SSN eredita un modello assistenziale di impronta mutualistica, pur modificando le modalità erogative e inglobando medici di famiglia, pediatri di libera scelta e specialisti all’interno di un contesto ‘libero professionale’ parasubordinato, che risponde alla stessa logica prestazionale dell’offerta mutualistica, ancorché i rapporti di ‘lavoro’ siano strutturati  su base oraria (rapporto orario degli specialisti ambulatoriali, apertura oraria degli ambulatori di medicina generale e di pediatria di libera scelta).
 
La medicina di famiglia è una medicina di attesa nel 1978 e negli anni seguenti, eredità del sistema mutualistico, a fronte di un quadro epidemiologico e demografico, caratterizzato da una popolazione giovane e ‘sana’, da un speranza di vita che non superava i 75 anni, con una diffusione delle patologie croniche, già importante ma non dirompente. L’offerta sanitaria nel territorio, sul versante medico, era in grado di rispondere a quella domanda, anche avvalendosi degli ospedali dove il ricovero non era così selettivo, come dopo l’introduzione dei DRG,e gli accertamenti diagnostici richiedevano diversi giorni.
 
Quarant’anni dopo, lo scenario epidemiologico è profondamente mutato: si vive più a lungo e si vive meglio, anche grazie ai medici e alla medicina; la speranza di vita viaggia verso gli 85 anni, (il nostro è tra i paesi al mondo più longevi), la prevalenza e l’incidenza delle patologie croniche rappresentano un problema crescente sia sul versante della spesa sanitaria sia su quello dell’organizzazione dell’assistenza, ma…ma la cassetta degli attrezzi è rimasta quella di quarant’anni fa: l’offerta professionale della medicina del territorio è inadeguata e risponde ancora a criteri inattuali, nonostante i ripetuti tentativi di restyling dell'organizzazione e le molteplici e insufficienti risposte approntate a livello regionale.
 
Il punto è che quegli strumenti non sono più adeguati ai nuovi bisogni espressi dalla domanda di salute, epocali e inediti, quanto meno nelle dimensioni.
 
Ecco perché - ma sono soltanto alcuni spunti, altri temi necessitano di un approfondito confronto, a partire dalla professione medica e dalla percezione del suo ruolo in questo nuovo contesto - appare necessaria una rivisitazione urgente del SSN e della sua legge istitutiva.
 
Una riforma delle riforme che, confermando i principi fondamentali ispiratori della legge 833, anzi rafforzandoli stante le disuguaglianze e le iniquità prodotte da una interpretazione regionalistica spinta ai limiti della costituzionalità, riorganizzi l’offerta sanitaria  a partire dal ruolo e dal rapporto di lavoro dei professionisti, medici, infermieri e altri operatori della sanità; quindi approntando omogeneamente sul territorio nazionale una adeguata risposta alla nuova domanda di salute:non ci sono cittadini lombardi e cittadini siciliani o cittadini pugliesi  e cittadini friulani, siamo tutti cittadini italiani e se condividiamo con il nostro voto le responsabilità di chi ci governa in ambito regionale e locale, credo che la risposta ai bisogni di salute, come a quelli di giustizia, non possa e non debba  comunque dipendere dalla residenza. Perché se è vero che il ricovero è possibile in qualsiasi ospedale d’Italia, è altrettanto vero che la risposta alla domanda di salute dei pazienti cronici non può che essere formulata da una medicina di prossimità.
 
Salvo Calì
Medico dirigente - Sicilia

13 novembre 2018
© Riproduzione riservata

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