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Riflessioni sulla contenzione in psichiatria

di Pietro Pellegrini

10 SET - Gentile Direttore,
la recente tragedia avvenuta a Bergamo il 12 agosto scorso presso l’SPDC dell’Ospedale Giovanni XXIII ha riacceso il dibattito sulla contenzione nei servizi psichiatrici. In ambito giuridico un recente articolo di Paolo Piras[1] ha riaperto il dibattito sull’inquadramento legale della contenzione fisica che pur ritenuta un’estrema ratio, dovrebbe fare riferimento non allo “stato di necessità” (art.54 c.p.) bensì, alla luce della legge 24/2017 (Gelli-Bianco), “all’atto terapeutico”. 

Non è questa la sede per disquisire su questo o se debba essere normata o meno. Noto soltanto che una disciplina stringente, come quella della Regione Emilia Romagna pur basata sullo stato di necessità, ne ha prodotto una significativa riduzione ed aumentato la sicurezza.

La teorica eccezionalità della pratica contrasta con la sua diffusione, in oltre il 90% degli SPDC, imponendo una riflessione sul funzionamento dei servizi con particolare riferimento a dotazione di risorse, aspetti strutturali e ambientali, percorsi terapeutici, stili professionali e competenze, formazione e supervisione. Questo non solo per quanto attiene gli SPDC ma più in generale per l’intero Dipartimento di Salute Mentale e oltre. Infatti non basta avere SPDC senza contenzioni e poi magari effettuarle al di fuori, in altri ambiti come ad esempio il Pronto Soccorso.

Il tema dei diritti e del modello di riferimento per la gestione dei rischi sono cruciali di fronte al rifiuto delle cure e all’auto ed eteroaggressività. Se è assolutamente dovuto l’intervento per prevenire, fino a che punto le azioni possono/debbono spingersi? Certo è difficile arrivare a norme generali ma l’esperienza clinica indica l’efficacia di una presenza terapeutica continuativa anche nelle 24 ore degli operatori accanto alla persona, una relazione umana per nulla vicariabile da telecamere o altri ausili.

Ma se l’intervento relazionale e magari anche farmacologico non sono in grado di fermare la persona la quale può allontanarsi in maniera non concordata dal servizio, a fronte di questo rischio reale è “giustificato” privare la persona della libertà, anche fissandola ad un letto, magari sulla base del TSO?
Serve tutto questo? Una risposta scientifica si impone.

La libertà, il potersi allontanare costituisce un rischio ineludibile, una parte delle condizioni per l’evoluzione del quadro clinico, che restituisce alla persona la responsabilità della propria vita e del proprio futuro, funzioni che nessuna cura può assumersi? Il nodo consenso/coercizione va affrontato esplicitamente.

Questo anche quando si chiama in causa la responsabilità genitoriale, l’amministrazione di sostegno, il tutore  che possono avere un effetto dissuasivo, di pressione ma sono nella realtà privi di potere coercitivo. Va aggiunto che la stessa organizzazione dei servizi di salute mentale rende impossibile l’esercizio di una “medicina custodiale”, né il tema può essere risolto con TSO extraospedalieri in assenza di un profondo cambiamento legislativo e strutturale dei servizi.
 
L’impegno a lavorare in sicurezza, nell’assunzione della responsabilità di sé e dell’altro, promuovendo i diritti va coniugato, come essenziale per l’identità, con il rispetto della libertà e del consenso. Con l’assunzione dei rischi anche quelli più elevati, secondo un principio: nella vita è compresa la morte e per vivere si corre il rischio di morire.  Quindi è sempre la libertà nella relazione, la condizione della cura.

E’ questo passaggio che rende la “vita della persona”, una componente essenziale di una cura non paternalistica, ma co-costruita, paritaria che oggi si vuole praticare.

E’ una via accettabile? O se la persona poi si allontana dal reparto e si suicida lo psichiatra ne risponde in sede giudiziaria? Il paziente può decidere ma di fronte alla legge vi è solo lo psichiatra? Se contiene perché vi può essere un tragico “incidente” oppure se concede un permesso perché ha omesso “la sorveglianza” (Cassazione n. 489292/2008)[2]. Per curare occorre correre rischi e a fronte di richieste di preveggenza, di protezioni “onnipotenti” si apre la strada della psichiatria “impossibile”, cioè al di fuori di quanto si possa umanamente e tecnicamente richiedere ad un professionista.

Con responsabilità occorre recuperare le condizioni essenziali della cura e senza alcun disimpegno procedere con motivazione ed etica ma nella convinzione che la vita appartenga solo alla persona anche nel caso sia affetta da un disturbo mentale. Occorre riconoscere i diritti compresa l’imputabilità di tutti soggetti tenendo conto delle condizioni psichiche nella fase di esecuzione della pena.

Pur con la ricerca del consenso e la pianificazione condivisa delle cure (legge 219/2017), il possibile dissenso e contrasto fra le indicazioni del medico e la volontà del paziente, ad un certo punto si pone anche in psichiatria. Una disciplina dove il limen fra vita e morte, la soglia fra l’essere e non essere viene costantemente sfiorata e talora stabilmente abitata. Farlo insieme al paziente, alla sua rete di riferimento, è assai faticoso e difficile anche per lo psichiatra. Ma abitare in quel luogo “acrobatico”, dentro quel rischio (di cadere) è una condizione della cura possibile.

Occorre superare la “posizione di garanzia” e riconoscere allo psichiatra il “privilegio terapeutico”, al fine di favorire l’alleanza terapeutica e prevenire la psichiatria difensiva orientata ad evitare i casi difficili, complessi e intrinsecamente rischiosi.

Se non vogliamo la contenzione servono culture e risorse adeguate: a livello nazionale, la spesa per la psichiatria è il 3,49% della spesa sanitaria, quando dovrebbe essere almeno il 5%.  Vanno rivisti i parametri dell’accreditamento, dotazioni, strumenti e le prassi operative con la consapevolezza che la contenzione è rischiosa e determina vissuti traumatici nella persona che vi è sottoposta. 

Oggi vi sono spinte affinché la contenzione sia considerata una pratica illegale.  Se il “diritto vivente” è fondato sulla continua evoluzione dei valori espressi dalla società, nello specifico della contenzione si deve registrare una palese contraddizione, interna anche alla psichiatria. In questo momento di dolore, senza polemiche, tutti insieme gli psichiatri possono essere con pazienti, familiari, amministratori e società civile, i protagonisti di un cambiamento delle pratiche, ridando spazio a diritti e doveri di tutte le persone attraverso modi innovati di lavorare nella comunità e con la comunità, confrontarsi con la complessità, i limiti, le contraddizioni, la violazione, la devianza e il potere. Per identificare mediante un dialogo punti di incontro fra istanze diverse terapeutiche, etiche e legali. Agli psichiatri serve una scelta di campo in quanto restare in mezzo al guado fra libertà e coercizione non aiuta il sistema ad evolvere sul piano della cura. Lo si sa da molto tempo (Conolly[3]) e le contraddizioni, le incertezze dei mandati di cura e di controllo, interiorizzati o pretesi dagli psichiatri vanno con coraggio superati a favore di una “psichiatria gentile” (Borgna).[4]
 
 
 
Pietro Pellegrini
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
 
 
 



[1]
Piras P. “Quando non resta che resta che legare il paziente: la Gelli-Bianco impone l’addio allo stato di necessità” Diritto Penale Contemporaneo, 15 maggio 2019,
https://www.penalecontemporaneo.it/d/6676-quando-non-resta-che-legare-il-paziente-la-gelli-bianco-impone-l-addio-allo-stato-di-necessita

[2]
Pellegrini P. Ancora sulla responsabilità in psichiatria, Ps. Scienze Umane, 2010, XLIV , n.2, 207-228

[3]
Conolly J.  The treatment of the insane without mechanical restraints (1856) tradotto “Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi “ Einaudi Ed. 1976

[4]
Borgna E. “L’ascolto gentile” Einaudi, 2018


10 settembre 2019
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