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“Studio” clinico o “indagine” clinica? Meglio studio, e in ogni caso... not in english, please!

di Andrea Messori

12 NOV - Gentile Direttore,
“Sperimentazione clinica” è un termine tecnico che non solleva equivoci (o quasi). Nella sua accezione più comune, esso intende riferirsi a una ricerca interventistica eseguita negli umani; l’esempio tipico di “sperimentazione clinica” è senza dubbio costituito dal randomized controlled trial o RCT (qui declinato in inglese, segue spiegazione più avanti).
 
Anche quando il disegno è osservazionale, sempre di sperimentazione si tratta; tuttavia, è diffusa la percezione per cui, se la ricerca è osservazionale e magari pure retrospettiva, essa venga meglio descritta dal termine “studio (clinico)” che dal termine “sperimentazione (clinica)”.
 
Sul versante delle certezze, c’è unanimità pressoché totale nel distinguere le ricerche interventistiche da quelle osservazionali (o non interventistiche); qualche dubbio è tuttavia emerso negli ultimi anni, da quando l’aggettivo “pragmatico” (ad es., il “trial pragmatico”) ha cominciato a raccogliere proseliti.
 
Ciò premesso, come dato di fatto la principale controversia linguistica in materia si concentra sulla preferenza a favore dei termini inglesi oppure di quelli italiani.
 
In inglese, clinical study e trial (o clinical trial), sono ambedue trionfanti; segue investigation (un termine in oggettivo declino nonostante l’esistenza del Journal of Clinical Investigation); vi è poco o niente, invece, che nel contesto inglese richiami la radice “sperimentazione”. Infine, il termine “research” va bene ma si caratterizza per la sua estrema genericità.
 
E in Italia? Posto che anche nella nostra lingua il termine “ricerca” va bene ma è generico, abbiamo “studio (clinico)”, “sperimentazione (clinica)” e, principalmente,  “trial” per gli anglofili; “investigazione” certamente esiste, ma sa tanto di “investigation” tradotto dall’inglese all’italiano.
 
La materia del contendere veramente insanabile in ambito italiano sta nel favorire oppure avversare l’ultima delle parole disponibili in questo ambito: “indagine” oppure “indagine clinica”.
 
L’alternativa, senza ricorrere ad eccessi di anglofilia, sarebbe quella di usare “studio” oppure  “studio clinico” oppure “sperimentazione” oppure “sperimentazione clinica”. Ma chi usa “indagine clinica” continua imperterrito a farne uso.
 
Veniamo a un rudimento di epidemiologia linguistica: chi preferisce usare “studio” e avversa la parola “indagine”? Pur riconoscendo che si tratta di sensazioni personali e non di dati, la risposta sembrerebbe essere: sono fautori di studio e avversano “indagine” i medici in generale, i chirurghi in particolare, i farmacologi (e soprattutto i farmacologi clinici), i cochranisti, gli esperti di HTA (quelli aventi estrazione sanitaria), i professionisti che lavorano in AIFA o all’ISS, e il personale dell’industria farmaceutica.
 
Va inoltre sottolineato che i pazienti di solito non comprendono cosa sia una “indagine clinica”, ma comprendono benissimo cosa sia uno studio clinico. A questo proposito, pur nel doveroso rispetto della privacy, posso citare il caso di un chirurgo toscano al quale la parola “indagine” evocava l’emissione di un avviso di garanzia o l’intervento della magistratura, o l’avvenuta visita da parte della Guardia di Finanza o, più serenamente, i telefilm dell’ispettore Derrick o del commissario Montalbano; comunque, non emergeva in lui (giustamente?) neppure la più lontana attinenza con un clinical trial.
 
Sul versante epidemiologico opposto, il quesito è: chi preferisce usare “indagine” o “indagine clinica” pur senza necessariamente avversare  lo “studio clinico” o la “sperimentazione clinica”?
 
L’esperienza, almeno quella personale,  suggerisce: molti professionisti che operano in strutture di solito ministeriali o regionali aventi orientamento più burocratico che clinico; molti operatori e professionisti sia privati che pubblici radicati nel mondo dei dispositivi medici piuttosto che in quello dei farmaci (a riprova che i dispositivi medici, rispetto ai farmaci, sono poco familiari con la medicina delle prove e delle evidenze;  vedasi  Cohen & Billingsley, BMJ 2011); gli estensori dei provvedimenti di legge e delle normative riguardanti i dispositivi medici; gli avvocati (per ragioni peraltro comprensibili).
 
Last but non least (anzi: per finire): è possibile una qualche soluzione a questa diatriba linguistica?
 
Una soluzione, anche semplice, ci sarebbe: i fautori dell’indagine clinica abbandonino questo vocabolo “poliziesco” e inizino a usare con maggior frequenza “studio (clinico)” e “sperimentazione (clinica)”. D’altro lato, i fautori degli inglesismi cessino di usare trial, RCT, e analoghi e comincino a usare con maggior frequenza i medesimi vocaboli di cui sopra, e cioè “studio (clinico)”, “sperimentazione (clinica)” (ed anche “studio clinico randomizzato”), i quali funzionano benissimo ugualmente.
 
Se tutto questo non avviene per vocazione, lo si faccia quanto meno allo scopo di essere chiari con i pazienti.
 
Infine, è doverosa una mia disclosure of interests (ahimè, altro termine inglese): 1) non uso mai il termine “indagine clinica”; 2) le opinioni espresse in questo articolo non necessariamente coincidono con quella delle mie istituzioni pubbliche di appartenenza; 3) ritengo opportuna ogni forma di apertura e di dialogo allo scopo di risolvere una controversia.
 
Andrea Messori
Firenze

12 novembre 2019
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