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PSA di screening: più prevenzione urologica o più disease mongering?

di Alberto Donzelli

16 NOV - Gentile Direttore,
ieri i dati di una ricerca Swg, commissionata dalla Lega Tumori in occasione del mese di novembre, dedicato alla prevenzione dei tumori urologici, mostravano che in uomini tra 30 e 65 anni “solo 1 su 4 effettua i controlli”, mentre “sarebbe fondamentale, specie superati i 50 anni, rendere periodico il controllo” urologico, dichiarato “la via principale per una prevenzione efficace”.

Purtroppo le affermazioni sopra riportate sono a dir poco equivoche, alla luce delle prove esistenti, e rischiano di portar fuori strada milioni di uomini.
Anzitutto, per promuovere una reale “cultura della prevenzione” si dovrebbe fare chiarezza, non confondendo la prevenzione primaria, che riduce il rischio di ammalarsi; la prevenzione terziaria-basata-su-stili-di-vita per evitare recidive di malattia; la prevenzione quaternaria che intende prevenire sovradiagnosi, sovratrattamenti e danni iatrogeni; con la prevenzione secondaria, rivolta a persone clinicamente sane, con processi in atto che potrebbero (ma anche no) sfociare in malattia, suscettibili di diagnosi anticipata (che potrebbe migliorare la prognosi, ma anche no): sarebbe meglio sostituire il termine “prevenzione secondaria” con quelli più chiari di “diagnosi precoce e preclinica”, senza mescolarla con la prevenzione, fino a sostituirla ad essa nella comune percezione di molti cittadini.

Soprattutto, però, lo screening con PSA (benché promosso con insistenza da produttori, Società professionali e organismi di volontariato) non rientra tra quelli ufficialmente raccomandati, per buoni motivi che dovrebbero essere chiari ai prescrittori e chiariti ad assistiti che lo richiedano, spinti da campagne mediatiche unilaterali.

Le serie autoptiche di bianchi di varie età, morti per cause accidentali senza sapere di esserne portatori, mostrano altissime frequenze di cancri alla prostata latenti: 30% circa in maschi di 30-39 anni e 80% in maschi di 70-79 anni (v. scheda allegata), mentre le morti annue per cancro prostatico sono meno del 2,8% delle morti maschili in Italia (2015). Ciò significa che, se un ultasettantenne esegue spesso un PSA di screening, ha buone possibilità di essere inviato a biopsie prostatiche, oggi più sensibili e con numeri più alti di prelievi, con crescenti probabilità di trovare tumori e di far ricorso a chirurgia, radioterapia, cure ormonali o sorveglianza attiva, con cascate di controlli ed esami ripetuti negli anni. Certo, fra costoro ci sono anche quelli in cui il tumore si sarebbe manifestato con sintomi e metastasi, ma il cittadino, prima di accedere allo screening periodico, dovrebbe avere ben chiaro il bilancio tra possibili benefici (per pochi) e danni molto probabili (tantissimi).

Gli elementi per tracciare tale bilancio sono nei dati della pubblicazione del follow-up a 16 anni del grande trial ERSPC, che ha avuto risultati relativamente migliori di altri trial su questo screening. Purtroppo gli autori concludono che “Repeated screening may be important to reduce PCa mortality on a population level” e incoraggiano i pazienti a “screening ripetuti”. Non mettono però in chiaro quanto abbiamo illustrato in una commento critico pubblicato, cioè che:
1) il rapporto tra tassi di mortalità da ca. prostatico (0,80 a 16 anni) non deve far pensare a un 20% di riduzione di mortalità “da tumori”, o addirittura di riduzione “della mortalità (totale)”, come rischia di fraintendere parte di chi riceve comunicazioni di questo tipo. Sappiamo invece che il PSA di screening non riduce la mortalità totale, e il trial ERSPC lo conferma. Perché un uomo dovrebbe aspirare a non morire di ca. prostatico se comprende che ha analoghe probabilità di morire da altre cause senza aumento dell’aspettativa di vita? In assistiti informati che il PSA in media non allunga la vita è crollato l’interesse nello screening.

2) per l’insieme dei maschi di 50-54 anni e ≥70 anni i dati pubblicati di ERSPC consentono il calcolo della mortalità totale, che nel gruppo con PSA è aumentata (!) di un non significativo 0,52%. Nel gruppo ≥70 ha teso ad aumentare (+6%) anche la mortalità specifica da cancro alla prostata. Un forte messaggio dovrebbe dunque essere di evitare lo screening in maschi ≥70 anni, non certo quello di farlo più spesso!

3) Rispetto a quelli di altri paesi, i dati italiani sono davvero allarmanti: con un follow-up di 15 anni la mortalità da ca. prostatico si è ridotta solo dell’1%, e per prevenire una morte da ca. prostatico (che non è ancora garanzia di aver “salvato una vita”) è stato necessario far diagnosi di ben 673 ca. prostatici, con significativo aumento di esami diagnostici, visite, interventi chirurgici, radioterapie, cure ormonali, effetti avversi (disfunzioni erettili, incontinenze urinarie o fecali, altri importanti sintomi urologici o gastrointestinali…). Nei partecipanti italiani a ERSPC il beneficio di una morte da ca. prostatico evitata andrebbe pesato contro il danno di 672 diagnosi di ca. prostatico (con ciò che ne consegue) senza quel beneficio. Ciò dovrebbe essere chiarito molto bene a chi si accosta ai PSA di screening.

4) In ERSPC le conclusioni per medici e sintesi per pazienti presentano problemi di informazione gravemente incompleta per un consenso realmente informato, e trascurano anche il problema dei costi-opportunità. I decisori dovrebbero infatti includere nella valutazione per le scelte allocative i risultati netti di un intervento (compresi danni e costi dei tanti uomini con sovradiagnosi da screening), e calcolare anche i benefici cui si rinuncia non destinando un pari ammontare di risorse ad altri interventi di efficacia dimostrata.

Ci sono infatti molti interventi sottoutilizzati per la salute maschile con bassi costi per QALY (anno di vita guadagnato in condizioni di buona salute) che andrebbero considerati ben prima di arrivare a proporre PSA di screening. Ad esempio un colloquio motivazionale o una prescrizione su ricetta per aumentare l’attività fisica, o un counselling breve strutturato + materiale di autoaiuto per la cessazione del fumo hanno costi per QALY inferiori di vari ordini di grandezza rispetto a questo screening più che discutibile. Andrebbe inoltre potenziata l’informazione sulla prevenzione primaria, che – oltre alle misure generali per una buona salute – include l’evitare sovrappeso e obesità (Diet, nutrition, physical activity and prostate cancer), che aumentano il rischio di ca. prostatici avanzati (più pericolosi), e la riduzione prudenziale di diete molto ricche in calcio, oltre a evitare di norma supplementi di calcio.

In ogni caso, ammetto che qualsiasi interessato – dopo aver davvero compreso informazioni esauriente basate sui dati – abbia diritto a scegliere un PSA di screening, in base a propri valori, che non coincidono per forza con ciò che è razionale per altri. È invece intollerabile che il PSA sia ancora prescritto ed erogato in assenza di informazioni bilanciate, e addirittura inserito in pacchetti assicurativi o di sanità “integrativa” che lo propongono anche dai 45 anni (!), tutti gli anni (!), anche agli ultra70enni, in violazione di qualsiasi obbligo etico e giuridico di ottenere un sostanziale consenso informato.
 
Dott. Alberto Donzelli
Comitato scientifico della Fondazione Allineare Sanità e Salute  


16 novembre 2019
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