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Competenze professionali e sostenibilità del Ssn

di Alessandra Spedicato

06 MAR - Gentile Direttore,
la proposta, contenuta nel decreto Milleproroghe appena convertito in legge, con la quale si offre ai medici la possibilità di rimanere in servizio fino ai 70 anni, cerca di tamponare goffamente il problema della carenza di medici specialisti, e prova la volontà di eludere un problema strutturale: la sostenibilità del SSN in rapporto ai suoi protagonisti. 
 
L’epidemia da Covid-19 dimostra, in modo acuto e drammatico, come operatori, risorse e spazi attualmente disponibili possano essere insufficienti, e come gli effetti di un lavoro logorante possano pesantemente ricadere sugli stessi lavoratori. La influenza stagionale ha poco da invidiare al coronavirus per quanto riguarda l’ingorgo in pronto soccorso di pazienti con complicanze o riacutizzazioni di patologie pregresse, e pandemie più silenziose e subdole, quali obesità, diabete, patologie cardiovascolari croniche determinano, in una popolazione sempre più anziana e complessa, un uso e un impegno costante e crescente di risorse e personale. 

La sostenibilità dell’offerta di cura è dunque quotidianamente a rischio, non solo perché l’investimento economico in sanità non può essere infinito (ed in verità è sempre più esiguo) ma anche perché sono cambiati gli attori tutti che prendono parte al processo di cura (personale sanitario, pazienti e familiari). Ridisegnare l’organizzazione sanitaria e aggiornare ruoli e competenze dei protagonisti del sistema, e dei caregivers, si configura, perciò, come una delle possibili strategie per aiutare la sostenibilità dell’offerta.

I medici (e gli altri rappresentanti del mondo sanitario) sono cambiati, come genere e generazione: pongono più attenzione ad un maggior equilibrio tra vita personale e vita professionale, o meglio ancora tra benessere personale e lavoro, sono stati educati ad un uso più importante di tecnologie che ha aperto loro la possibilità di accedere a settori iperspecialistici della professione (sia questa medica o infermieristica), sono abituati a pensare come un team, hanno maggiori capacità di relazione in gruppo (frutto anche della prevalente componente femminile) e sono più pronti a cooperare.

Una realtà in cambiamento che necessita di un miglior uso delle sue risorse potrebbe giovarsi anche di una ridistribuzione delle competenze o task shifting, scevro da intenti e motivazioni economicistiche, sebbene questa ultima sia nata in contesti di stati di necessità e carenza di risorse.
Il taskshifting, o anche task sharing (perché le competenze si possono anche condividere per adattarle al setting lavorativo) non deve spaventare i professionisti della sanità. Sotto molti aspetti è già avvenuto,anche se facciamo fatica a riconoscerlo.

La femminilizzazione della classe medica e/o di alcune specialità potrebbe essere anche interpretata in tal senso: una professione divenuta troppo impegnativa e poco remunerativa è stata abbandonata dagli uomini e il vuoto creatosi è stato, fisiologicamente, occupato dalle donne. E anche la spinta verso la medical leadership e il ruolo dei medici in ambito gestionale e manageriale è un esempio di taskshifting che, poiché risponde ad esigenze di ambizione, suscita meno clamore nella categoria.

La nascita di nuove figure professionali, per esempio gli specialist che affiancano i chirurghi in camera operatoria durante procedure endovascolari, o l’approccio improntato al taskshifting nei confronti del paziente o dei suoi familiari/caregivers nella gestione quotidiana di patologie croniche, sono esempi di suddivisione di competenze che determinano un miglioramento della qualità di cura offerta al paziente e di responsabilizzazione della utenza.

Il documento della Conferenza delle Regioni riguardo alla definizione di funzioni di professionista specialista e professionista esperto per il personale del comparto, non solo salta a piè pari la neonata consulta delle professioni, ridotta ad osservatorio muto ed impotente, ma ignora anche alcune delle raccomandazioni di un panel di esperti della Commissione Europea (pubblicate in un affascinante report in data Giugno 2019 – Task Shifting and Health System Design) che sottolineano come la distribuzione delle competenze è figlia, oltre che della realtà locale dove si lavora (e sappiamo che in Italia di realtà locali ce ne sono innumerevoli), del confronto fra tutti i portatori di interesse.

Per potere redistribuire competenze in sanità è, cioè, necessario Dialogo, Formazione ed Educazione. 
 
Dialogo tra tutti i professionisti sanitari, perché le competenze non sono un tesoretto da custodire gelosamente ma uno strumento per il bene comune (la salute pubblica).

Formazione di operatori, ma anche di pazienti e familiari perché l’avanzare di malattie croniche richiede un ruolo nella gestione in prima persona dei pazienti e di chi sta loro accanto. 

Educazione della popolazione verso il rispetto del bene comune e di chi vi si adopera in prima linea (vedi le aggressioni verso il personale sanitario e l’abuso di accesso e intasamento al pronto soccorso da parte di cittadini non bisognosi-codici bianchi).

La carenza di medici è un dato oggettivo, come è crescente la percentuale di colleghi che abbandonano la professione ospedaliera per le frustranti condizioni di lavoro. Il finanziamento del FSN è inadeguato in sé e non all’altezza della percentuale di PIL che viene investita in altri paesi della zona UE.
Se non iniziamo a mettere in atto tutte le soluzioni possibili (che richiederanno del tempo prima di provare la loro efficacia), tra cui una fruttuosa collaborazione tra tutti gli attori che agiscono nel sistema sanitario, potremmo ritrovarci, noi medici, presto in esigua quantità. Talmente esigua da arrivare al paradosso che non sarà più possibile licenziarsi o andare in pensione, senza rischiare di essere accusati di interruzione di pubblico servizio.
 
Alessandra Spedicato
Capo Delegazione Anaao in FEMS

06 marzo 2020
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