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Mmg, dipendenti o convenzionati?

di Pasquale Pellegrini

13 MAG - Gentile Direttore,
come giornalista scientifico mi sono occupato in varie circostanza di sanità, vorrei, pertanto, se possibile, offrire un mio piccolo contributo al dibattito sulla medicina generale. Parto dalle considerazioni del dott. Filippo Anelli, presidente della Fnomceo su Quotidiano Sanità del 9 maggio. Mi permetto di notare che non è “una inutile diatriba” quella relativa alla medicina generale in convenzione o dipendenza, ma il nocciolo della questione.
 
Se dopo vent’anni se ne parla ancora, è perché è rimasto uno dei nodi irrisolti del SSN, un aspetto cruciale che ha creato non pochi problemi. Bisogna essere molto chiari: dietro la convenzione si cela una sorta – mi verrebbe da dire di lobbismo – che intende mantenere una condizione che, tutto sommato, è ancora di privilegio.
 
Il rapporto di dipendenza contrattualizzato è altra cosa. Innanzitutto crea una cornice di diritti e di doveri, di prestazioni e di orari, di competenze e ruoli più omogenea tra tutta la dirigenza medica pubblica, introduce un fondamentale principio di equità e uguaglianza. Poi il contratto garantisce eccome l’efficienza del sistema in quanto è strumento di organizzazione, di determinazione dei criteri di produttività, di valutazione e di misurazione.
 
Accanto alla customer satisfaction del malato, la misurazione della produttività permette il confronto con altre realtà sanitarie e, conseguentemente, l’adozione di correttivi. Inoltre, il rapporto contrattualizzato permette una maggior flessibilità nell’adozione della prestazione professionale e, quindi, di poter far fronte a bisogni sanitari in maniera meno rigida. Non ultimo, il contratto è uno strumento di razionalizzazione della spesa e del lavoro.
 
È pur vero, come sostiene il dott. Anelli, che uno studio di medicina generale è privo di adeguati strumenti diagnostici, ma la domanda giusta è un’altra: quando la medicina generale si è posto il problema degli strumenti diagnostici? Non è forse più comodo e meno rischioso sul piano professionale richiedere una consulenza specialistica anziché esercitare fino in fondo la propria scienza? D’altronde se i pronto soccorso sono costretti a improprie prestazioni e le le liste di attesa si sono allungate, c’entrerà pure il ruolo del medico di medicina generale?
 
Bisognerebbe evitare l’uso di sostantivi quali ‘autonomia’, partecipazione’ per dire che ai medici di medicina generale questo stato di cose va tutto sommato bene, non fosse altro perché si potrebbe indurre il pensiero che i medici contrattualizzati non siano autonomi e non siano attivi nella partecipazione. Bisogna, invece, riconoscere che all’autonomia, i medici di medicina generale hanno rinunciato da tempo volontariamente.
 
Come interpretare, per esempio, la decisione di non prescrivere più farmaci che lo stesso medico in passato ha prescritto ai suoi malati, solo perché lo ha stabilito la Regione? Forse che i medici non hanno tenuto in considerazione l’appropriatezza quando li hanno prescritti? E’ una logica inaccettabile, un medico opera sempre in scienza e coscienza? Bene hanno fatto quei medici (pochi per la verità), che hanno rivendicato davanti al giudice la loro autonomia e la loro professionalità ottenendo sentenze favorevoli. E gli altri?
 
Sono d’accordo con il dott. Anelli sulla necessità di utilizzare le competenze dei medici di medicina generale. A mio avviso occorrerebbe, laddove possibile, utilizzare anche le loro specializzazioni. Se ne valorizzerebbe il ruolo, ne guadagnerebbe l’assistenza sul territorio, si ridurrebbero le liste di attesa e si potrebbero valutare incrementi economici mediante i ticket e abolire l’intramoenia.
 
Mi permetta, infine, una breve osservazione sugli ‘Stati generali’. Un gran bel lavoro, indubbiamente, peccato però che il malato vi sia entrato solo marginalmente. Nelle 100 tesi se ne parla un po’ nella macro-area ‘Il medico e la società’ e nella ‘tesi per ridefinire il malato’. Mi si obietterà che gli stati generali riguardano le professioni mediche. Giusto. Ma senza la centralità del malato con il suo portato di fragilità, di paure e di umanità, può esistere la professione medica? Francamente, ne dubito. Una scienza senza l’uomo, non sarà mai sapienza, al massimo conoscenza, conoscenza inerte e sterile.
 
Pasquale Pellegrini

13 maggio 2020
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