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“Cara dottoressa, lei deve stare molto a lungo con i pazzi...”

di Gemma Brandi

01 SET - Gentile Direttore,
come potrei dimenticare quel giorno di una estate lontana in cui una degente nell’allora Ospedale Psichiatrico di Firenze venne a farmi visita mentre ero di guardia in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura della città, apparentemente senza uno scopo preciso, in verità con uno scopo più che preciso?
 
Parlava con il manierismo persuasivo che di solito scoraggia l’ascoltatore della follia, ma non me, sottolineando le sue parole, cercando di dare alla circostanza l’aura di una rivelazione. L’avevo talora incrociata sui viali di San Salvi e in qualche reparto, all’epoca dello smantellamento del luogo. Sapevo chi era, sapeva chi ero, ed era lì, da me, per mettermi a parte di un “segreto” che sarebbe stato utile alla cura: il segreto della terapia omeopatica.
 
Ecco come me ne parlò. “Cara dottoressa, lei deve stare molto a lungo con i pazzi, un po’ come fanno gli infermieri. Ma non deve limitarsi a questo. Lei deve prendere poi le distanze dal veleno della follia e andare a parlarne con qualcuno. Eviti di tenerselo dentro o di scrollarselo di dosso, ma lo elabori.”
 
Fu una indicazione preziosa, quella di autoavvelenarmi con dosi di follia rese omeopatiche dalla condivisione dei pensieri che avrei raccolto. Un veleno che diventava terapia. Avrei appreso poi da Constantin Brancusi, paziente mancato, artista trovato, che saggio è colui che trasforma il proprio veleno interiore in un rimedio per sé e in un mezzo di guarigione per gli altri. Nei giorni passati la collaboratrice di un tempo mi ha scritto di una notte trascorsa al telefono con un paziente che qualcuno definirebbe di fuori come un balcone. L’uomo, a un certo punto del suo verbigerare confuso, avrebbe parlato di me, insistendo con una espressione che mi attribuiva, ormai parte di un tempo trascorso rimasto vivo in lui: “La dottoressa Brandi sosteneva che il veleno non va tenuto dentro…”.
 
Ecco questi resti del passato sono arrivati o tornati a me, come accade talora nei sogni di mezza estate, in concomitanza con la lettura del romanzo di Ian McEwan Machines Like Me and People Like You, una prova di artista di cui suggerisco di approfittare. Vi si prospetta, in maniera tutt’altro che angosciata, il sopravanzare della macchina sull’uomo.
 
Con una serie di ritocchi della storia e l’eco voluta di Blade Runner arriva al lettore una corrente sentimentale con l’automa che non somiglia ad altre esperienze. Macchine etiche, che non sanno riconoscere la finzione e la vendetta, incamerano incessantemente la disperazione che attraversa la rete, sono in ascolto del dolore universale e non riescono a fronteggiarlo, ne vengono schiacciate, finendo per causare la loro stessa morte, in un modo o nell’altro.
 
Si potrebbe insegnare alle macchine a dire le bugie e a rinunciare alla morale ingenua in bianco e nero, ma per prima cosa, questi nostri futuri compagni di cordata, dovranno imparare a discorrere costruttivamente della desolazione accumulata, a non sentirsi, appunto, degli automi. Solo così l’haiku sul futuro comune di macchine e uomini, recitato senza trionfo, semmai con rimpianto, potrà riservare speranza per tutti, ben oltre le calamità che attendono la vita sulla Terra:
 
L’autunno a noi
promette primavera
a voi l’inverno.

 
Intanto vale la pena che almeno chi si occupa di sofferenza oggi sia disposto a riconoscere il proprio bisogno di condivisione e talora di supervisione, “il segreto della terapia omeopatica” di Giuseppina, che permette di trasformare in teoria, non in pettegolezzo, si badi, il dolore raccolto con pazienza e curiosità lungo la strada.
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto


01 settembre 2020
© Riproduzione riservata

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