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La violenza, la malattia e il reato non sono mai “festini”

di Anna Paola Lacatena

04 SET - Gentile Direttore,
Amore amor/Portami tante rose (…) / Le stringerò al cuor.
Iniziava così una canzone del 1934 cui seguirono innumerevoli re-interpretazioni. E oggi? Probabilmente la versione più contemporanea potrebbe fare a meno della locuzione Amore amor arrivando direttamente all’ingiunzione - riadattata dai mala tempora che non sono una band - portami tanta cocaina. È notizia di qualche ora fa, infatti, la scoperta della cosiddetta “Villa Inferno” (richiamo al peccato) tra Pianoro e Rastignano, nel bolognese, dove si consumavano “festini” (richiamo al piacere) a cadenza settimanale a base di sesso e cocaina con l’imprescindibile presenza di ragazze minorenni.

Il nucleo operativo dei carabinieri della compagnia Bologna Centro ha eseguito sette misure cautelari nei confronti di altrettante persone accusate a vario titolo di induzione alla prostituzione e reati in materia di stupefacenti.

Non siamo nuovi a notizie di questo tipo, non siamo disavvezzi a letture stereotipate dove si finisce per non riuscire ad attribuire le giuste specifiche ai fatti (disagio, malattia, violenza).
Non siamo nemmeno così ingenui da credere che ciò che viene stanato e portato alla ribalta periodicamente non sia che una ridotta porzione di ciò che accade davvero e ovunque.
Al di là del più che giustificato sconforto misurabile su un continuum da lieve a grave in ragione della sensibilità e moralità personale, sarebbe bene riflettere su alcuni aspetti.

Il rapporto tra dipendenza patologica da sostanze psicotrope e criminalità non esaurisce la propria portata nei termini dei possibili reati commessi dal tossicodipendente così come siamo adusi a credere.

La dipendenza da sostanze (legali o illegali) e, dunque, lo stato di soggezione e di vulnerabilità legati alle condizioni psico-fisiche e alle susseguenti esigenze declinate da quel fenomeno che va sotto il nome di craving -  “comportamento incontrollato, focalizzato all’ottenimento della sostanza che ha prodotto e mantiene la dipendenza, qualunque sia il prezzo da pagare” (A. Tagliamonte e  D. Meloni, Le basi biologiche della tossicodipendenza) -  rendono soprattutto le donne tossicodipendenti vere e proprie vittime di reati.

Lo scarso peso sociale e politico della tossicodipendente (soprattutto da eroina e cocaina), la ricattabilità, lo stigma, la necessità di altra sostanza sono i fattori che, più di altri, riportano alla prospettiva vittimologica.

Se la violenza sessuale è più facilmente percepita come tale prima dell’avvio della carriera tossicomanica, nello strutturarsi della dipendenza la vittima sembra perdere i riferimenti in un copione consueto, atteso, inevitabile fino a farsi crudelmente condiviso da vittima e carnefice.
Come si può definire, infatti, se non violenza lo scambio tra corpo e sostanza?

Eppure abusare di una donna tossicodipendente appare ancora oggi di minore rilevanza penale fino a parlare di “festini” come se il divertimento sottinteso potesse garantire la piena assoluzione mainstream.

Per chiunque una dose ha un prezzo, per la donna a questo si aggiunge spesso l’unicità della formula del saldo: il proprio corpo.
Tutto è aspettare come predatori e magari sono proprio le donne dipendenti a proporsi per effetto del disvalore di sé, della passività e dell’arrendevolezza dettata dal bisogno e dall’alterazione dello stato fisico e neurologico.

Se l’utilizzo della sostanza finalizzata a vincere la resistenza della donna (a sua insaputa) è contemplato dal nostro ordinamento come circostanza aggravante, quest’ultimo non sembra altrettanto garantista quando si tratta di tossicodipendenza della vittima.
Come può non essere un aggravante approfittare della condizione di vulnerabilità determinata dall’uso/dipendenza di sostanze psicotrope offerte, promesse, usate come premio/regalo in cambio di prestazioni sessuali?

Riconosciuta la violenza (passaggio non scontato), come potrebbe la vittima dimostrare esattamente la contingenza dello stato di astinenza alle forze dell’ordine? Sarebbe ritenuta credibile? Meritevole di tutela?

Fino a quando la sottocultura delle droghe non riceverà sostegno da quella dominante, fino a quando questa non eserciterà pressione sui decisori continueremo a soffermarci sulle colpe/responsabilità delle vittime amplificando la portata della ferita delle donne tossicodipendenti.
Pensare, scrivere, parlare di “festini” significa utilizzare l’assoluzione ancor prima dell’accertamento dei fatti.

Solo perché questi accadono all’interno di una villa, con professionisti formalmente integerrimi e ragazzine apparentemente consenzienti e non in uno stabile abbandonato o nei bagni di una stazione non significa che il degrado debba essere emendato di tutta la sua portata morale e giuridica.
Non si tratta solo di una questione privata orientata alla condotta della vittima, alle sue abitudini, all’abbigliamento, al presunto consenso. È una questione pubblica.

Se l’è andata a cercare… resta sempre la malevola espressione che accompagna il nostro pensiero quando una donna viene usata e violata. Quando la stessa (sia pur minore) utilizza sostanze psicotrope allora non è neanche più reato, è un “festino”.

Anna Paola Lacatena
Sociologa e coordinatrice del Gruppo “Questioni di genere e legalità” della Società Italiana delle Tossicodipendenze (SITD)


04 settembre 2020
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