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Servirebbero gli Stati generali degli infermieri

di Marcella Gostinelli

16 SET - Gentile Direttore,
 
pensavo che fosse un’esigenza di tutta la comunità professionale, dirigenziale, rappresentativa, ed anche  politico-sociale ascoltare chi aveva curato il malato di covid 19. Gli infermieri avrebbero potuto farlo in uno spazio  dedicato, per poi  far conseguire  le linee programmatiche per il futuro, per avviare una vera riforma  del  sistema insieme ai medici ed alle altre professioni sanitarie a seguito delle nuove conoscenze apprese sull’uomo malato.
 
Il buon lavoro svolto ai tempi del Covid 19  avrebbe rappresentato per gli infermieri  non un capitale da spendere subito, ma una sorta di risparmio da trasformare in capitale, che a sua volta permettesse di generare  altro bene in futuro e calcolare cosi, e concretamente, il credito infermieristico, ( e non solo) , complessivo verso il sistema. Invece abbiamo letto  relazioni programmatiche di Direttori generali, esimi professori, infermieri altri, comunicati Fnopi simil sindacali, in assenza del parere  di  chi avrebbe avuto certezza nel dire.
 
 
Senza nulla togliere a questi autorevoli soggetti ed ai loro  interventi,  prima di tutti  avrebbero dovuto parlare coloro  che avevano vissuto, nella  cura, l’uomo malato di covid 19. Sentire dalle loro voci  non solo le narrazioni, ma gli esiti della loro opera, dell’approccio  utilizzato durante la pandemia  avrebbe fatto capire, a chi ancora non lo ha capito,  l’indipendenza, e quindi l’autonomia  dell’ infermieristica nella cura,  nello  sviluppare la propria dimensione teorica, pratica ed artistica e  quindi a coglierne il valore e la specificità.
 
Il fine di ascoltare gli infermieri durante la “tregua” del  covid, per la FNOPI,  avrebbe dovuto  essere quello di “completare “l’infermiere clinico  unendosi ad esso nella mente ed estendendo  l’unione delle menti   a tutti gli infermieri presenti nello spazio dedicato.
 
La separazione dalla dirigenza e dalla rappresentanza professionale, il nostro vero problema di categoria, provoca in noi infermieri un senso di solitudine, isolamento, esclusione che ci porta a completarlo dichiarando a diverse e variegate voci  il bisogno di unione e  tentando unioni apparenti, simboli di unione che  sono solo un’ illusione perché la vera unione è nella mente condivisa  e non nel trionfo o nella vittoria per aver ottenuto la regolamentazione dell’Infermiere di Famiglia o di comunità pur sapendo che non sarà ciò che dovrebbe essere perché non nasce dall’unione delle menti.
 
Occorrono gli Stati generali della professione, all’interno dei quali gli infermieri clinici trovino  riconosciuta la loro  impresa e non perché durante la pandemia siano stati degli eroi - cosa ci aspettavamo dagli infermieri, che hanno dimostrato sempre più responsabilità che autonomia, che disertassero gli ospedali? – ma perché sono stati capaci di usare modalità assistenziali che hanno enfatizzato  il sapere biomedico , indiscutibile ed indispensabile, il supporto tecnologico, e  “ l’interiorità del malato”.
 
Questo è quello che l’infermiere sa di essere ed ha saputo essere. Ed è questa capacità di legare il bisogno biomedico al bisogno biografico del malato che è interessante e risolutiva nei fenomeni di cura emergenziali e nella cura ordinaria, in particolare dove c’è profonda sofferenza di corpo e mente.
 
Ed è  questa attitudine alla sofferenza , quale competenza specifica infermieristica, anche nella comunicazione interpersonale, anche non verbale , usata  soprattutto nelle terapie intensive e nell’uso di tecniche invasive, che ha trasmesso fiducia, certezza di presenza e cura e quindi di vita. Se di questa esperienza si è trattato  il contributo dell’antropologia applicata sul campo dagli infermieri diventerebbe un supporto scientifico alla costruzione di nuova conoscenza del malato anche nelle emergenze pandemiche (M. F. Colliere 1982). Ma andrebbe conosciuta.
 
 
Questo sapere infermieristico avrebbe comunque richiesto, proprio perché “relativo a” e specifico,  di essere riesaminato nelle sue asserzioni di conoscenza con le più evidenti prove possibili e con gli argomenti multidisciplinari, interprofessionali più forti, e con la rappresentanza dirigenziale di ogni tipo, ma considerandole nella nascita come assolute e certamente vere fino a quel momento. Un professionista “pieno” del suo specifico sapere è utile e riconoscibile nel mondo della cura e quindi indispensabile, e se vogliamo “impareggiabile” (Cavicchi, 2010).
 
La Fnopi su questo  tace. Tutti protestano  per il mancato riconoscimento nei fatti. Ma quali sono i fatti da riconoscere?
 
Io credo che gli infermieri del Covid 19, ma forse anche i medici, oggi si sentano soli  in  un sistema di cura che del fenomeno covid 19 ha perso la sostanza mentre loro ce l’hanno nella carne. E’ quel sapere in più inascoltato che li rende inadeguati ad un sistema regressivo.
 
Il dovere di ogni Ordine professionale  dovrebbe essere quello di recuperare quella conoscenza in più e chiedere in maniera determinata la possibilità di discuterla nell’ambito degli Stati generali della professione.
 
Non è un pensiero mio , non ricordo di chi è ma lo condivido:
”Nella nostra società chi ha un salario basso ha poco valore, ma non è alzando il salario che si aumenta il valore perché in questo modo sarà sempre un valore basso , poche lire, bisogna manifestare il valore rendendoci autonomi e responsabili e non subordinati, neanche al datore di lavoro” se , come credo, la nostra è una professione impareggiabile e indispensabile.
 
Marcella Gostinelli
Infermiera
 
 
 
 
 

16 settembre 2020
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