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Nuovo coronavirus ed ecosistemi marini

di Giovanni Di Guardo

05 OTT - Gentile Direttore,
prendendo in esame la risposta anticorpale e, più in generale, la reazione immunitaria dell'ospite nei confronti di SARS-CoV-2, il famigerato beta-coronavirus responsabile della CoViD-19, che ha oramai mietuto oltre 1 milione di vittime su scala globale, dovremmo prestare attenzione anche alle varie specie animali, sia domestiche che selvatiche (gatto, cane, criceto, furetto, visone, leone, tigre, macaco), le quali - pur con diversi gradi di suscettibilità - sarebbero in grado di acquisire l'infezione virale per via naturale e/o sperimentale.
 
Di particolare rilievo, a tal proposito, sarebbe la documentata trasmissione di SARS-CoV-2 dall'uomo al visone (spillover), che lo avrebbe quindi "restituito" - per cosi' dire - all'uomo stesso (spillback), fattispecie quest'ultima descritta in Olanda in alcuni allevamenti di visoni e nel personale addetto alla cura degli animali mantenuti al loro interno.
 
Il "distanziamento sociale", unitamente al lavaggio corretto e frequente delle mani e ad un adeguato uso delle mascherine, rappresentano i comportamenti e le strategie - alias, i 3 "baluardi" - che dovrebbero essere applicati/e universalmente (una sorta di Vox Populi, per dirla con un'espressione cara a Giuseppe Mazzini) al fine di limitare il più possibile la circolazione, la diffusione e la trasmissione di SARS-CoV-2 (oltre che, e' bene sottolinearlo, di molti altri agenti infettivi responsabili di forme respiratorie!).

Una problematica che sta assumendo aspetti via via più preoccupanti in tale ambito è quella relativa al "destino" delle mascherine - così come di altri "dispositivi di protezione individuale" (DPI), quali i guanti -, una volta che gli stessi siano stati eliminati per essere smaltiti. Stiamo assistendo, in poche parole, ad un crescente livello di contaminazione ambientale (con esplicito riferimento agli ecosistemi terrestri e marini dell'intero Pianeta!) da parte dei succitati DPI, che a milioni - per non dire a miliardi, visto che stiamo parlando di un'emergenza pandemica - alimenterebbero quotidianamente il ciclo dei rifiuti, già di suo oltremodo complesso, articolato e, nondimeno, sofferente!
 
Ne è una tangibile ed al contempo drammatica testimonianza l'allarmante contaminazione da plastiche/microplastiche/nanoplastiche oramai presente in tutti i mari e gli oceani del mondo, come peraltro dichiarato dall'autorevole World Economic Forum, che nel proprio Report del 2016 avrebbe stimato in un quantomai preoccupante valore pari a 1:1, per l'anno 2050, il rapporto tra ittiofauna e plastica nei mari del Pianeta, rapporto che risulterebbe attualmente pari a 5:1.
 
Tutti gli organismi popolanti gli ecosistemi marini subiscono, senza eccezioni, un più o meno rilevante impatto ad opera delle succitate micro/nanoplastiche, che attraverso le catene alimentari sarebbero in grado di arrivare fin sulla nostra tavola mediante il consumo di alimenti e prodotti ittici.
 
Ad aggiungere ulteriore drammaticità a questo inquietante scenario, se mai ve ne fosse bisogno, è il dato secondo cui i frammenti di materiale plastico fungerebbero da "attrattori e concentratori" di un'ampia gamma di contaminanti ambientali ("metalli pesanti", diossine, PCB, etc.), che i Cetacei (con particolare riferimento ai delfini) sarebbero capaci di accumulare e "biomagnificare" in maniera consistente nei propri organi e tessuti, vista e considerata la loro comprovata posizione di "predatori apicali" nel contesto delle catene trofiche marine ed oceaniche.
 
Qualche anno fa, sulle pagine della prestigiosa Rivista Science, il Professor Sandro Mazzariol (Università di Padova) ed il sottoscritto ipotizzarono che anche Toxoplasma gondii, un parassita unicellulare in grado di esercitare un rilevante impatto sulla salute e sulla conservazione di numerose specie e popolazioni di Cetacei, potesse beneficiare della suddescritta attività di "attrazione e concentrazione" attribuita alle micro/nanoplastiche nei confronti di numerosi composti chimici.
 
L'infezione da T. gondii è stata ripetutamente documentata, infatti, in alcune specie di delfini che vivono in acque profonde, tipiche degli ecosistemi "pelagici". Ciononostante, non si conoscono le modalità attraverso cui l'infezione verrebbe acquisita da questi animali, tanto più alla luce dell'effetto diluente verosimilmente esercitato dall'acqua marina nei confronti del parassita, cosicché il ruolo di potenziali "attrattori e concentratori" svolto dai frammenti plastici nei confronti dello stesso goderebbe di plausibilità biologica.

In un siffatto contesto una questione-chiave, da affrontare secondo il salvifico "principio di precauzione" e l'altrettanto benefico e salutare concetto della "One Health", è quella secondo cui possa esser ragionevole ipotizzare, se non ritenere addirittura realistico, un "ciclo" dell'infezione da SARS-CoV-2 in ambiente marino.
 
A tal proposito, alla crescente contaminazione ambientale prodotta dall'innumerevole quantità di mascherine (ed altri DPI) che vengono quotidianamente eliminate/i e smaltite/i - un numero imprecisato delle/dei quali potrebbero ancora albergare virus (totalmente o parzialmente vivo e vitale) al loro interno - andrebbe "sommato" il preoccupante (ed assai poco enfatizzato, a onor del vero) dato secondo cui circa il 60% dei pazienti affetti da CoViD-19 eliminerebbero per via fecale l'agente virale per ben 22 giorni, stando ai risultati di uno studio condotto da Colleghi cinesi e pubblicato sull'autorevole British Medical Journal.
 
Già a Dicembre, cosa ulteriormente degna di nota, l'Istituto Superiore di Sanità aveva rilevato la presenza del virus in campioni di acque reflue prelevati in diverse aree del nostro Paese.

Sebbene delfini e balene non figurino ancora fra le specie sensibili (o resistenti) nei confronti dell'infezione da SARS-CoV-2, andrebbe tuttavia sottolineato che il tursiope e la balena grigia rappresentano due specie cetologiche caratterizzate da un livello di similitudine/omologia di sequenza della molecola ACE-2 (il recettore grazie al quale il virus SARS-CoV-2 è in grado di entrare nelle cellule ospiti), rispetto all'analoga molecola umana, fra i più alti tra quelli finora osservati nei mammiferi. Ciò equivale a dire che l'infezione sarebbe biologicamente plausibile nelle due specie sopra citate.
 
In analogia con quanto viene "routinariamente" fatto (anche nel nostro Ateneo) per una serie di agenti patogeni in grado di produrre un rilevante impatto sulla salute e sulla conservazione dei Cetacei (Morbillivirus, Herpesvirus, Brucella ceti ed il già citato T. gondii), sarebbe oltremodo auspicabile il ricorso ad opportune indagini siero-epidemiologiche sugli esemplari di delfini e balene rinvenuti spiaggiati, al precipuo fine di verificare negli stessi anche l'eventuale presenza di anticorpi nei confronti di SARS-CoV-2, cosa altrettanto auspicabile per le diverse specie di mammiferi terrestri suscettibili all'infezione.

Prof. Giovanni Di Guardo
Docente di Patologia Generale e
Fisiopatologia Veterinaria,
Università di Teramo,
Facoltà di Medicina Veterinaria 


05 ottobre 2020
© Riproduzione riservata

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