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Grazie Insinna, ci hai fatto riflettere. Ma che amarezza!

di Gianfranco Sanson

06 GIU - Egregio Direttore,
scrivo questa nota per associarmi ai commenti sull’episodio relativo a un’infermiera riportato nel libro “Neanche con un morso all’orecchio”, di Flavio Insinna, personaggio televisivo che, lo confesso, aveva finora goduto di una certa simpatia anche da parte mia.
Il racconto, autobiografico, parla della dolorosissima esperienza della morte del padre in una rianimazione di un ospedale romano. Un argomento difficile, in cui il coinvolgimento emotivo è inevitabile. La storia sollecita riflessioni attuali e complesse, evidenziando in particolare il punto di vista dell’utente (il padre) e delle persone per lui significative (i familiari) quando una situazione di grave malattia sradica le normali premesse della vita di relazione, proiettandole in una struttura particolare come la terapia intensiva, nella quale vigono criticità e regole e nella quale le priorità assumono valenze diverse se esaminate dal punto di vista degli operatori o degli assistiti (“pazienti”, per l’appunto).

Giusta l’amara riflessione di Insinna sull’asimmetria di potere detenuto ed esercitato da chi si occupa di assistere e curare a discapito di chi di cure e assistenza deve fruire. Importantissima l’opportunità che ci dà di riflettere una volta di più su quando lontana sia la realtà di troppe terapie intensive (e non solo) italiane dalla tanto proclamata umanizzazione delle cure.
Tutto ciò viene però completamente vanificato in due capitoli. In particolare, quello intitolato “L’infermiera stronza” è assolutamente ignobile e volgare.
Insinna non se la prende con un regolamento assurdo, anacronistico e incomprensibile, né con le capacità relazionali palesemente inadeguate dell’infermiera.
 
No, Insinna scatena tutta la sua lombrosiana ferocia sulla donna, colpevole di essere femmina, “piccola, curta e male cavata”, che sa fare solo passetti piccoli perché ha le gambe corte e – dulcis in fundo – che porta gli occhiali. E che ha anche la colpa di non essere ricca, dato che ha dovuto acquistare la sua automobilina nuova pagandola in sedici comode rate. E che ovviamente è stronza. E che solo incidentalmente è “vestita da infermiera”.
Insinna ci spiega che essa ambirebbe ad essere alta e bella, ma non può. Per fortuna ci pensa lui a educarla, immaginando un’azione degna dei peggiori poliziotti televisivi, piena di violenza e di insulti.
 
Grazie Insinna, per averci spiegato come si trattano le donne quando sono colpevoli di essere brutte, piccole, grasse e con le gambe corte.
Grazie Insinna, per l’opportuno e tempestivo richiamo ai peggiori stereotipi classisti e maschilisti; stavamo quasi per dimenticarli.
Ora, grazie a te, possiamo finalmente sperare in un mondo migliore, pieno di donne ricche, belle, alte, magre e con le gambe molto lunghe. A quelle potremo anche perdonare se sono un po’ stronze, non credi?
 
In poche pagine Insinna prova a demolire anni di lotta per la parità dei diritti, per il contrasto della violenza contro le donne, per il superamento dell’apparentemente insanabile dicotomia (di pertinenza esclusivamente femminile, s’intende) fra bellezza e intelligenza. Lo fa con pensieri che evidentemente ha lungamente meditato e che ha voluto mettere per iscritto.
Non credo che possa riuscirci, ma leggere quelle pagine amareggia e fa riflettere.
 
Gianfranco Sanson
Infermiere, Trieste



 

06 giugno 2012
© Riproduzione riservata

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