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Mi capisci o sei sordo?

di Claudia Manzi

12 MAG - Gentile Direttore,
7,3 milioni di persone in Italia vivono un calo dell’udito. Eppure, solo il 30% decide di ricorrere all’ausilio di soluzioni acustiche (Euro Track, 2020).
Come mai questa difficoltà? E come mai non si incontrano le stesse resistenze ad accettare e gestire eventuali situazioni di calo della vista?
Le cause sono molteplici e toccano ragioni di natura economica e culturale. Certamente, uno dei fattori che maggiormente incide è lo stigma associato al calo e alla cura dell’udito.
 
Ad ammettere di sentire meno bene ci si vergogna, ancora di più ad indossare un apparecchio acustico. Questo perché il calo dell’udito è vissuto come una vera e propria disabilità e spesso è associato al declino cognitivo. “Mi capsici o sei sorda?” è solo una delle tante espressioni che, in forma di battute apparentemente innocue, possono contribuire a perpetuare una visione stigmatizzante e negativa.
 
Ci siamo chieste quale ruolo avessero le parole nel contribuire a dare forma agli atteggiamenti che abbiamo nei confronti dell’ipoacusia. Grazie al sostegno del Centro Ricerche e Studi Amplifon, è stato realizzato un progetto di ricerca, condotto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Milano e in collaborazione con Diversity & Inclusion Speaking© (start up che si dedica alla formazione e ricerca nel campo del linguaggio inclusivo). I risultati di questa ricerca sono stati recentemente pubblicati sul “Journal of Language and Social Psychology”, e presentati il 6 maggio, durante un evento organizzato all’Università Cattolica a Milano.
 
Nella prima fase della ricerca, si è analizzato come il tema del calo dell’udito sia rappresentato sui mezzi di informazione, analizzando oltre 650 articoli pubblicati sulla carta stampata e nel web in Italia, su due anni. Le analisi hanno evidenziato che, contrariamente a quanto atteso, il tema del calo uditivo in età anziana (presbiacusia) è sotto rappresentato sulla carta stampata, che si concentra nella trattazione di tematiche legate alla sordità o in generale alle situazioni di difficoltà uditiva nelle generazioni più giovani.
 
Insomma, proprio in quelle pagine che è probabile siano più frequentemente lette da persone di età avanzata, sembra che si abbia difficoltà a parlare di questo tema. Inoltre, il linguaggio maggiormente utilizzato dai mass-media, è quello tecnico, molto simile a quello che utilizzano i medici con i loro pazienti.
 
Una seconda fase della ricerca ha indagato quali fossero gli effetti di questo tipo di registro linguistico sulla formazione degli atteggiamenti (espliciti e impliciti) delle persone nei confronti dei dispositivi acustici. 190 perone (44% uomini) hanno partecipato ad uno studio sperimentale dove veniva manipolato il tipo di linguaggio utilizzato in un articolo di giornale. I risultati sono chiari: le persone che leggono un articolo che utilizza un linguaggio tecnico mostrano atteggiamenti più negativi rispetto a quelle che leggono un articolo su questo tema scritto in un linguaggio colloquiale (lo scarto raggiunge quasi il 17%).
 
Che le parole siano importanti, probabilmente lo sapevamo già. Ma che l’uso di un linguaggio tecnico-medicale, in particolare sui mezzi di informazione mass-mediale, possa contribuire a generare una visione patologica e disabilitante del calo dell’udito, allontanando le persone invece di avvicinarle alla ricerca di soluzioni, è stata una sorpresa. La soluzione, per chi è giornalista, sembra quindi essere a portata di penna o di tastiera.
 
Invece, rispetto a quelle battute che sembrano innocue, proviamo a pensare a come ci sentiremmo se, in presenza di un calo uditivo, ci venisse detto “Ma, mi capisci o sei sordo?!”.
 
Claudia Manzi
Docente di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica, campus Milano


12 maggio 2021
© Riproduzione riservata

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