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Superare il regionalismo spinto del Titolo V sarà molto difficile

di Claudio Testuzza

21 SET - Gentile Direttore,
parlare di modifica del Titolo V, in questa fase di impegno sanitario, potrebbe sembrare velleitario, ma è stata proprio questa fase di emergenza a rilevare la difficolta di continuare a procedere in un regionalismo ingovernabile. Con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, approvata da una maggioranza di centrosinistra (Governo Amato II) e poi confermata da referendum (nel frattempo era subentrata al Governo una nuova maggioranza di centrodestra guidata da Berlusconi),  veniva riformato il titolo V della Costituzione, che trasferiva molti poteri dallo Stato centrale alle Regioni, dando di fatto piena attuazione all’articolo 5 della Costituzione che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica.
 
Veniva in sostanza trasformato il nostro Stato in uno stato federale con la suddetta riforma chiamata “ Federalismo a Costituzione invariata ” (1.59/1997).
 
La riforma riconosceva alle Regioni l’autonomia legislativa, ovvero la possibilità di legiferare norme di rango primario. Vengono specificate, nell’articolo 117, le materie di competenza delle regioni fra le quali: ricerca scientifica e tecnologia, alimentazione; protezione civile; governo del territorio; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e in ultimo, tutela della salute.
 
E’ una cosa giusta che la sanità sia in capo alle Regioni?
Il tema è quello del livello di governo più adatto a prendere le decisioni in campo sanitario.
D’altronde anche a suo tempo non mancarono critiche. Ci furono giuristi che sollevarono molte perplessità sulla possibile tenuta dei conti soprattutto in termini di sanità e finanza locale. Anche all’interno dello stesso Consiglio dei Ministri vi fu un’ opposizione, ha ricordato recentemente l’ex ministro Vincenzo Visco, ma non fu recepita.
 
L’opposizione era motivata soprattutto dalla soppressione della “clausola di supremazia”, presente anche negli Stati Federali, che consente al Parlamento nazionale di intervenire nelle materie di competenza legislativa delle Regioni quando sono in gioco gli interessi strategici della Nazione.
 
Peraltro va ricordato che, anche recentemente, nel corso dell’epidemia Covid, la Corte costituzionale ha precisato che, anche nelle materie di competenza concorrente, tra le quali è ricompresa quella della tutela della salute, nel caso di inadeguatezza dei livelli regionali, lo Stato può avocare a sé le funzioni amministrative e, conseguentemente, la funzione legislativa.
 
Allora vari governatori e assessori si offesero addirittura della presa in carico da parte di Conte e del Governo. Ma l'emergenza, ora come allora, ( il virus non si ferma ai confini nazionali figuriamoci a quelli regionali!) è dettata per lo più dall'inadeguatezza del sistema sanitario, da vent'anni territorio di pascolo e lottizzazione dei vari potentati politici regionali.

Non si tratta di una battaglia ideologica tra fautori del regionalismo e fautori del centralismo. Perché, va sottolineato, che un sistema decentrato per funzionare richiede che lo Stato abbia la capacità di intervenire quando sia necessario e non, come è accaduto, di cercare compromessi invece di agire più d’imperio.
 
Il servizio sanitario viene definito nazionale perché deve avere un’organizzazione ed un funzionamento uniforme sul territorio e il diritto alla salute deve essere uguale in Lombardia come in Sicilia. Regionalismo, riconoscimento delle autonomie non vogliono dire costituzione di repubbliche indipendenti dove, malauguratamente, Lombardia e Calabria non seguono, come dice il prof. Cassese, , le “ best practices ” del Lazio. Ogni Regione procede secondo un concetto di autonomia, sempre più stretto parente di quello di “ anomia ”, ( assenza di leggi ) moltiplicando diseguaglianze nel trattamento di cittadini dello stesso Paese.
“Cos’è la feudalità?” si chiedeva il giurista Gaetano Filangeri (1753-1788) “una specie di governo che divide lo Stato in tanti piccoli stati, la sovranità in tante piccole sovranità, la giustizia in tante giustizie”.
 
Abbiamo già pagato un prezzo molto alto alla discrezionalità delle scelte regionali.
Il presupposto per gettare solide basi del primo pilastro della sanità è essenzialmente dato dalla constatazione del fallimento, in campo sanitario, della politica del regionalismo. I fondi già stanziati 20 miliardi di euro di cui 8,2 per le spese sostenute nel 2020, e 8,6 per le spese del 2021, a cui seguiranno altri 20 miliardi messi a budget nel Recovery Plan per finanziare la Missione 6 del piano europeo dedicata alla sanità, potrebbero rappresentare, se ci sarà una volontà politica sensibile a queste problematiche, il supporto finanziario di una vera revisione, se non di una vera e propria rifondazione della Sanità Pubblica.
 
Le risorse che arriveranno sono più o meno pari ( 19 miliardi ) a quelle messe a disposizione delle Regioni negli ultimi venti anni dal Sistema sanitario nazionale attraverso gli accordi di programma per gli investimenti. Di questa imponente cifra solo il 65 % è stato oggetto di accordi Stato-Regioni, mentre per il 35 % dei finanziamenti gli enti locali non sono stati in grado di presentare validi progetti. Assisteremo al miracolo che, in un quarto del tempo (cinque anni) previsto dal Recovery, le Regioni saranno in grado di realizzare quanto non fatto in passato?
 
Intanto, per la Sanità che cambia si prevedono 2.564 Case della Comunità, strutture assistenziali di prossimità per le comunità, e 756 ospedali di comunità per le così dette “cure intermedie”! Strutture, dove dovranno lavorare medici ed infermieri in una rete di 8 milioni di pazienti cronici mono-patologici e 5 milioni con più patologie, che dovrebbero essere costruite o ristrutturate entro 5 anni.
 
Previsti, anche, infermieri di famiglia e di comunità per assicurare le cure e l’assistenza di prossimità.
Sono previste tutte cifre da capogiro, soprattutto perché ricadono nel contesto dell’originario riparto delle competenze tra Stato e Regioni che risale a 50 anni addietro, e quello specifico relativo alla sanità che è stato ridefinito vent’anni fa.

Il titolo V della Costituzione, quello che riguarda le Regioni, la Province, e i Comuni richiede una nuova valutazione nel senso che certamente alcune funzioni devono ritornare dalle Regioni allo Stato ma anche viceversa, alcuni compiti possono ora essere trasferiti anche alle Regioni.
 
Ma prima del percorso politico che ovviamente riguarda prevalentemente la riforma della Costituzione, bisognerà intraprendere un serio percorso tecnico economico per definire quella che gli economisti chiamano la dimensione ottimale dell’erogazione dei servizi pubblici. Non ci si può nascondere che la sanità costituisca i due terzi della finanza delle Regioni, nonché una gran parte dell’attività politica amministrativa delle stesse e che, quindi, il superamento dell’attuale Titolo V sarà molto difficile.
 
Claudio Testuzza

21 settembre 2021
© Riproduzione riservata

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