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Il Ssn merita i fondi che servono per fare prevenzione e cura

26 OTT - Gentile Direttore,
secondo uno stereotipo un po’ abusato, quando si tratta di gestire le risorse, il medico e l’economista si trovano sempre ai lati opposti della barricata. Dove il primo vede un dovere irrinunciabile di cura sul singolo paziente, il secondo è tutto incentrato sull’efficienza, o comunque, sul set di indicatori che devono tingersi di verde a riprova di una buona performance aziendale. I due mondi, negli ospedali ma anche nel dibattito pubblico, non si incontrano spesso, se non per necessità, e spesso il confronto diventa scontro, schiacciato com’è sui problemi immediati: la spesa farmaceutica, le liste d’attesa, la carenza di personale…

Il nostro incontro è stato abbastanza casuale. Durante la pandemia, in una conferenza in videochiamata, lo studioso di management, Alberto Ricci, ha raccontato il sistema sanitario dal punto di vista dell’osservatorio OASI del CERGAS, SDA Bocconi, che ogni anno analizza i numeri e le prassi gestionali della sanità italiana. Il clinico esperto, Paolo Nucci, l’ha incalzato con tutto il rigore di chi ha avuto come palestra la sala operatoria. Alla fine del dibattito non ci siamo trovati perfettamente d’accordo, anzi, ma ognuno dei due aveva una risma di domande da fare all’altro. Ed è stato un buon punto di partenza. Il libro che presentiamo oggi ai lettori di QS, La sanità che verrà, edito da Piemme–Pickwick, è il frutto degli scambi che si sono sviluppati nei mesi successivi. Ci siamo confrontati senza pregiudizi su temi come il regionalismo, la responsabilità dei medici, il ruolo del privato accreditato, il presidio del territorio e le prospettive per la ricerca. E’ soprattutto un tentativo di metodo: a partire da posizioni e approcci diversi, lo sforzo è stato quello di allineare i linguaggi, chiarire il nocciolo dei problemi reali e cercare un terreno di soluzioni condivise e magari sfidanti, ma praticabili.

Qualche esempio? Il libro inizia dalla vexata quaestio del budget delle unità operative, che spesso tanto angustia i clinici responsabili dei reparti. Chi si occupa di management sostiene che il budget è una necessità, perché senza programmare e monitorare non si possono raggiungere obiettivi complessi in organizzazioni grandi ed eterogenee. Allo stesso tempo, il medico ha ben chiaro che è solo uno mezzo, il fine resta la risposta ai bisogni di salute: allora, si può concordare che negli ospedali i budget devono essere uno strumento analitico più efficace, che permetta ai direttori di unità operativa di sapere se davvero stanno andando verso un’assistenza di qualità e sostenibile, e perché. Allargando il campo, i clinici senior potranno e dovranno sicuramente avere voce in capitolo sulle scelte organizzative e di impiego delle risorse. Tuttavia, per dare il proprio meglio ai pazienti, dovranno occuparsi di più di clinica e di meno di aspetti legali ed economici. È per la clinica, del resto, che si sono formati per oltre dieci anni. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che molte questioni gestionali oggi gestite di medici potrebbero essere delegate ad altre professionalità, appositamente formate. Per esempio, l’organizzazione delle sale operatorie potrebbe essere in buona parte affidata agli operations manager.

Su altre questioni – come il ruolo dei Comuni nel disegno dei servizi, oppure lo spazio per il privato – le nostre posizioni restano più distanti. Ci fermiamo qui, lasciamo ai lettori il seguito. Anticipiamo però il messaggio che conclude il libro e che è attualissimo in questi giorni, in cui si parla di grandi investimenti nella sanità italiana, ma anche, finalmente, di aumento strutturale dei finanziamenti correnti. Il nostro SSN è un vettore di mobilità sociale che produce occupazione qualificata, in buona misura femminile, assieme alla sua filiera vale circa il 10% del PIL influenzando in maniera indiretta ma innegabile la produttività del paese. Nel bilancio pubblico è una voce di spesa, non c’è dubbio, ma produce benefici irrinunciabili per la società. Il SSN si merita i fondi che servono per fare prevenzione e cura in un paese che vuole dirsi maturo, e non solo perché ha parecchi capelli bianchi. Come in qualsiasi famiglia, proporzioniamo la spesa alla ricchezza disponibile, quindi, nel caso dello stato, al PIL. Però fissiamo anche una percentuale destinata alla salute più vicina agli alti grandi paesi europei, sotto la quale non scendere.

Alla vigilia della pandemia Germania e Francia destinavano alla sanità pubblica oltre il 9% del PIL, il Regno Unito il 7,8%, l’Italia il 6,5%. Durante la pandemia siamo stati costretti obtorto collo ad aumentare il finanziamento della spesa sanitaria di un punto percentuale, arrivando al 7,5%. Mantenere questi livelli ci sembra una scelta di buon senso.

Paolo Nucci
Professore Ordinario di Oftalmologia, Università di Milano

Alberto Ricci
Associate professor of Practice, SDA Bocconi, CERGAS


26 ottobre 2021
© Riproduzione riservata

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