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QS Edizioni - venerdì 19 aprile 2024

Scienza e Farmaci - Emilia Romagna

Osteoporosi severa: in Regione Emilia-Romagna bene su Case di comunità ma serve un PDTA di patologia

di Marzia Caposio
immagine 23 dicembre - Intervenire sulla prevenzione primarie e secondaria per abbattere i costi diretti e indiretti e rendere accessibile l’innovazione. Nel quarto appuntamento organizzato da Fondazione Charta le proposte degli esperti per prevenire le fratture da fragilità e ottimizzare la gestione del paziente
La gestione dell’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi. È stato questo l’argomento al centro del quarto incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”. Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Emilia-Romagna e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Lucia Dardani, dell’UOC di Reumatologia, dell’Arcispedale S. Maria Nuova, Azienda Ospedaliera di Reggio Emilia; Angela Buffa, della Struttura complessa di Reumatologia ASMN, AUSL di Reggio Emilia e Rete Metropolitana di Reumatologia, AUSL Bologna e Monica Calamai, Direttore Generale, AUSL Ferrara.
 
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
 
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi –  che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
 
Ma facciamo un passo indietro. “L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
 
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolicain questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
 
Ad inquadrare bene il problema delle fratture da fragilità è Lucia Dardani. “Per definizione la frattura da fragilità è una frattura risultante da forze meccaniche che normalmente non darebbero frattura, quindi un esito di trauma a basso livello”, ha spiegato l’esperta. “Secondo l'Oms sono le forze equivalenti a una caduta da un'altezza non superiore a quella del soggetto in piedi. Di queste fratture da fragilità nel mondo ne abbiamo 8,9 milioni all'anno, quasi mille fratture all'ora. Un terzo delle fratture osteoporotiche si verifica in Europa e due terzi nelle donne”. Per quanto riguarda il nostro Paese, “in Italia nel 2017 l'incidenza delle fratture da fragilità secondo le SDO (schede di dimissione ospedaliera ndr) era di 560.000. In realtà sono solo quelle ospedaliere e quindi possiamo pensare a come sia veramente solo la punta dell'iceberg di un problema ben maggiore”.
 
Come abbiamo visto un primo evento fratturativo ne pedice un secondo dello stesso tipo con un rischio aumentato del “25% per frattura vertebrale e quadruplicato per frattura femorale entro un anno. Il dramma è che queste fratture vertebrali sono sottostimate perché clinicamente quasi la metà sono asintomatiche”, ha proseguito Dardani. A questo va aggiunto il grande impatto sulla vita quotidiana, sociale e lavorativa. Si stima infatti che “ci siano quasi 720.000 ore di assenza per malattia prese dai lavoratori a causa delle fratture da fragilità. Sebbene queste colpiscano maggiormente le persone in età avanzata, il 20% avviene in età di prepensionamento”. Senza contare poi la perdita di giornate di lavoro da parte del caregiver: “ogni anno la frattura femorale osteoporotica porta a 370 ore di assistenza ogni 1.000 persone, quella vertebrale a 263 ore di assistenza ogni 1.000 persone, e tutte le altre a 130 ore di assistenza”, ha concluso Dardani.
 
Intervenire sulle rifratture però è possibile e lo si può fare in parte con la prevenzione in parte con l’innovazione farmacologica. Oggi “abbiamo due grandi classi, ci sono i farmaci antiriassorbitivi e farmaci anabolici”, ha spiegato Angela Buffa. “Sono molto efficaci quasi tutti nel ridurre il rischio di fratture vertebrali e non vertebrali e nelle fratture di femore. Però è molto importante sottolineare il fatto che non tutti sono rapidamente efficaci quindi abbiamo tre grandi farmaci  che possiamo utilizzare per ridurre il rischio di frattura imminente. I farmaci anabolici, il teriparatide e i farmaci antiriassorbitivi come il risedronato che fa parte della famiglia dei bifosfonati e il denosumab”, ha proseguito. La nota 79 dell’Aifa prevede il trattamento farmacologico dell’osteoporosi a carico del Servizio sanitario nazionale per i pazienti con rischio di frattura e per quanto riguarda la prevenzione secondaria la nota identifica, ha sottolineato Buffa, “i pazienti ad alto rischio di frattura e ad elevatissimo rischio di frattura per cui è più utile utilizzare questi farmaci, teriparatide, farmaco anabolico, seconda scelta denosumab e terza scelta gli altri farmaci perché hanno una velocità di azione minore rispetto ai precedenti”. Ora, “dove è possibile, sarebbe meglio utilizzare un farmaco anabolico prima di passare a un antiriassorbitivo, o un farmaco come il romosozumab che ha un'azione duplice sulla riduzione del riassorbimento osseo e sull'aumento della bone formation”.
 
Da studi clinici si possono evincere dati di efficacia e sicurezza di questo nuovo farmaco e “sarebbe molto importante collocarlo proprio nei pazienti a rischio imminente perché il guadagno di BMD e la riduzione del rischio di fratture è maggiore e più rapido rispetto ad altri farmaci”, ha proseguito Buffa. E ancora, “in un confronto fra romosozumab e teriparatide nei pazienti ad alto rischio di fratture di femore, romosozumab ha dimostrato un'azione maggiore sull'osso trabecolare rispetto alla teriparatide.” In conclusione dunque “nei pazienti ad alto rischio di frattura o in presenza di rischio imminente è preferibile considerare come prima linea la terapia anabolica, poiché  l’impatto sulla BMD dei farmaci anabolici seguiti da farmaci antiriassorbitivi è maggiore rispetto alla sequenza inversa”. Infine, ha concluso l’esperta, il romosozumab “ci dà la possibilità di agire rapidamente nella riduzione del rischio di frattura soprattutto in certi pazienti e l'ideale sarebbe poterlo usare per tanti pazienti e non solo per quelli più a rischio”.
 
Il rovescio della medaglia sono inevitabilmente i costi. In ottica di carico economico “l’impatto maggiore è dato dalle fratture”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale. “Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato - in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A questo si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
 
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita. Sono fondamentali quindi approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”, ha concluso.
 
Serve dunque uncambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. “C’è un problema di comprensione tra i vari operatori che si occupano di questi temi, dal ministero della Salute e dalle Regioni, da una parte, e dal ministero dell’Economia dall’altra”. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa ma con l’arrivo dei 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembra che “tutto il sistema sanitario pensi che il tema della compatibilità economica non ci sia più”, ha precisato Moirano. “A mio parere, invece, c’è il rischio che ci sia anche di più nelle fasi successive se non saremo in grado di utilizzare questi finanziamenti. Se metteremo in campo iniziative prive della compatibilità economica che pensiamo, ci troveremo solo costi aggiuntivi senza avere più il finanziamento”. Una occasione questa più unica che rara che sarebbe grave non saper cogliere.
 
Ma perché parliamo di problema di governance. Come fa notare Moirano, la pandemia ha messo in evidenza un tema importante: la deroga delle norme e delle leggi preesistenti. “Lo stato ha dovuto derogare sia in termini di assunzioni sia in termini di acquisizioni di beni e servizi, prendendo atto quindi che le procedure che avevamo non erano efficaci. C’è quindi da fare un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio, “per esempio rivedendo il DM 70 per rafforzare le cure primarie”. Per fare questo c’è bisogno di  “riempire di contenuto le case di comunità, previste nel PNRR, per fare della prevenzione primaria e secondaria sul territorio. Stiamo parlando di 8 milioni di pazienti cronici, stiamo parlando di una patologia cronica che avrebbe possibilità di prevenzione”.
 
Una parte della missione 6 del PNRR è dedicato alle cosiddette Case di Comunità. Da questo punto di vista l’Emilia-Romagna è tra le regioni messe meglio. “Le case della salute o case della comunità sono già operative e danno servizi ai cittadini in maniera importante”, ha detto Moirano e questo bene si inserisce nella gestione dell’osteoporosi. “In gran parte le fratture di fragilità avvengono in pazienti che hanno già avuto fratture di questo tipo. Quindi, al di là degli interventi di prevenzione primaria, ci sono interventi di prevenzione secondaria che possono essere fatti attraverso un monitoraggio puntuale, che può avvenire al di fuori degli ospedali, dell'andamento e dello stato di salute di questi pazienti. Quindi è molto importante che le cure primarie siano coinvolte in maniera integrata tra i medici di medicina generale, i medici specialisti e gli ospedalieri che si occupano di queste patologie”.
 
La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale per poter recuperare i fondi da investire poi nel territorio con particolare attenzione alla medicina generale. “Noi avremo 15 miliardi: dobbiamo usarli anche  per i farmaci però deve essere coerentemente rivista l'organizzazione e ciò che è inefficiente”, ha concluso Moirano.
 
L’osteoporosi si inserisce nel contesto più generale della cronicità. Stiamo assistendo ad un progressivo innalzamento dell’età media con un conseguente aumento delle patologie e delle comorbidità nella popolazione generale. “Non è un caso che il nostro Paese già nel 2016 sia andato a fare un piano nazionale della cronicità”, all’interno del quale però si fa solo un “accenno all’osteoporosi”, ha precisato Monica Calamai. È in questo contesto quindi che diventa necessaria la riorganizzazione di governarce di cui parlava Moirano. “Quello che diventa necessario è la strutturazione di un PDTA per la gestione dell'osteoporosi che solo alcune regioni, ad oggi, hanno, che possa essere un riferimento anche a livello nazionale”.
 
Per quanto riguarda i costi “ad oggi abbiamo una spesa importante per l'osteoporosi di 9.4 miliardi. Di questi noi andiamo a spendere solo 514/516 milioni per la prevenzione. Se non cambia niente l'incidenza di spesa arriverà fino a 11.9 miliardi”, ha spiegato Calamai. “Per evitare tutto questo in termini di spesa e in termini di impatto sociale e di disabilità, diventa fondamentale mettere in ponte delle azioni di prevenzione primaria e di prevenzione secondaria e quindi la costruzione di un percorso che prenda oggettivamente ed effettivamente in carico in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale di questo problema”.
 
Quello della prevenzione è un tema fondamentale perché il rischio è che si verifichi un aumento “del 25% dell'incidenza di questa patologia” con conseguente impatto economico e sociale. “Allora qui mi preme sottolineare che è uno degli obiettivi del PNRR, non nella missione 6, ma nella missione 5, parlando di inclusione sociale, è quello dell'autonomia. Il PDTA sociale ci permette poi di inserire dentro quel percorso anche altri attori. Mantenere l'autonomia del soggetto disabile, degli ultrasessantacinquenni e degli ultrasettantenni, è uno degli scopi fondamentali. Quindi, nella riorganizzazione del sistema, questo diventa un elemento importante”.
 
In un PDTA per l’osteoporosi, secondo Calamai, non dovrebbero mancare dei programmi di formazione non solo per gli specialisti ma soprattutto per la medicina generale e dei percorsi di presa in carico del paziente articolati sul territorio. “Una  delle lamentazioni dei pazienti”, ha spiegato Calamai, è proprio “una scarsa presa in carico da parte del territorio che spesso è legata a un percorso destrutturato, ma anche ad una mancanza di conoscenza. Un ruolo chiave è sicuramente quello della medicina generale”. I medici di famiglia “conoscono la loro popolazione e quindi possono intervenire in modo determinante sugli stili di vita dei pazienti e dei loro assistiti” e agire quindi sulla prevenzione e indirizzare i pazienti “nel giusto percorso di presa in carico per l'osteoporosi”.
 
Infine, altro tema caldo è la digitalizzazione di cui parla ampiamente il PNRR. “Possiamo avere oggi degli strumenti molto importanti che ci possono aiutare non solo a valutare il rischio di osteoporosi ma addirittura l'aderenza terapeutica. La teleriabilitazione ci può permettere di fare programmi di riabilitazione direttamente a casa o nelle Case della salute, così come tramite device audiovisivi. La digitalizzazione può essere fondamentale per migliorare l'aderenza terapeutica del paziente, delle visite, e dei consulti”, ha concluso Calamai.
 
In conclusione, nonostante quindi una buona organizzazione territoriale tipica della regione Emilia-Romagna, i passi da fare sono ancora molti. Punto di partenza deve essere necessariamente la creazione di un PDTA condiviso che prenda in considerazione tutti gli aspetti del trattamento dell’osteoporosi, da una diagnosi precoce ad interventi di prevenzione primaria e secondaria; da una assistenza duratura nel tempo, portata avanti in sinergia tra ospedale e territorio, all’accesso alle terapie innovative più appropriate per ogni singolo paziente.
 
Marzia Caposio
23 dicembre 2021
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