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QS Edizioni - venerdì 19 aprile 2024

Lettere al Direttore

Un’epidemia di tamponi

di Salvatore Pisani
10 gennaio - Gentile Direttore,
c’è un’epidemia, quella per COVID-19, progredita in pandemia, e c’è un’altra epidemia, quella dei tamponi, molecolari e non. Se si vanno a consultare i numeri, i tamponi eseguiti dall’inizio dell’epidemia sono molto più dei casi trovati, in Italia circa 24 volte e in Lombardia circa 23 volte; in questa regione, all’11/12/21,  sono stati eseguiti poco meno di 22 milioni di tamponi, più delle dosi di vaccino anti-COVID-19 (circa 18 milioni).
È normale tutto questo?
 
Il primo passo da fare, in un ragionamento sensato, è capire a che cosa serve un test molecolare. Il secondo è capire se lo stiamo usando bene. Il terzo è verificare i risultati che dà un tale tipo di esame nel controllare l’epidemia di COVID-19. Il quarto è che cosa si può fare per usare la tecnologia in modo appropriato, senza finire, come pare di intuire da vari segni indiretti, per esserne usati o addirittura abusati.
 
La prima cosa anomala, in questa pandemia, è la definizione di caso di COVID-19: una definizione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, a cui (ci mancherebbe) si è attenuto anche il Ministero della Salute del nostro Paese. Non esiste nessun altro caso di malattia infettiva (vorrei, su questo, essere smentito) in cui la diagnosi si può fare col solo criterio di laboratorio: ciò, per essere chiari, permette di considerare un caso di malattia anche un soggetto asintomatico.
 
Ad esempio, nell’influenza succede che basta il solo criterio clinico per fare diagnosi, ossia il nostro medico curante ci comunica che abbiamo l’influenza in base ai sintomi rilevati o riferiti, senza fare nessun tampone. In ogni caso, senza sintomi non esiste alcuna malattia! Il test molecolare dovrebbe confermare una diagnosi sospetta o probabile. Se invece il soggetto risulta positivo al tampone per la ricerca di SARS-CoV-2, ma non accusa alcun disturbo, in infettivologia si parla di infezione, non di malattia.
 
Ora, è pressoché impossibile curare le infezioni, cioè quegli stati di persistente contaminazione microbica degli uomini che non progrediscono in malattia: si pensi ai casi d’infezione da microbi come salmonelle, meningococchi, virus dell’epatite e virus della rosolia. Le infezioni si possono prevenire, ma non curare (con poche eccezioni, come quella dovuta a HIV), perché per definizione non si accompagnano a sintomi. Dunque nessuno ha mai fatto test molecolari, microbiologici o antigenici in soggetti asintomatici per far diagnosi di malattie come salmonellosi, meningite, epatite C o rosolia: lo si fa per confermare una particolare sintomatologia o, in casi di contatti stretti limitati a definiti contesti a rischio (ad esempio, collettività di bambini piccoli o di anziani), per verificare la presenza di infetti che possono essere fonte di contagio (il cosiddetto contact tracing) e mettere in atto misure restrittive che possano contrastare la circolazione dell’agente patogeno.
 
Tutta questa premessa per dire che il test, molecolare e non, ha un valore prevalentemente diagnostico, soprattutto se eseguito in presenza di sintomi. Nei soggetti asintomatici andrebbe eseguito solo nei contatti stretti, soprattutto familiari o in collettività chiuse a rischio, come ad esempio RSA o case di riposo per anziani. Invece è diventato una sorta di lasciapassare, prima nell’interesse individuale e poi nell’interesse collettivo (green pass), attribuendogli un valore che non ha: primo per la chiara temporaneità, e in secondo luogo per i limiti del test (eccessiva sensibilità, senza attestare con certezza la contagiosità), per non parlare della scarsa attendibilità dei test antigenici o di quelli eseguiti da sé, con scarsa rappresentatività del campione raccolto.
 
In sintesi, il test è stato usato come strumento improprio per individuare i soggetti contagiosi, senza ottenere il risultato di controllare il contagio (cosa possibile per malattie a bassa diffusione ossia endemiche, ma praticamente impossibile per quelle ad alta diffusione, addirittura pandemiche). Non parliamo poi degli screening forsennati richiesti a “cor di popolo” da più parti, sindaci compresi. Raramente in tali screening di popolazione si è superato il limite dell’1% di prevalenza, e contrariamente a quanto si possa pensare ciò non è servito a prevenire altri contagi in modo consistente. Un esempio lampante è quello della provincia di Bolzano, dove nel dicembre del 2020 si è fatto uno screening di massa (fino a un po’ meno del 70% della popolazione).
 
Nella stessa provincia nel dicembre dell’anno successivo, dove la copertura vaccinale è rimasta relativamente bassa rispetto alla media nazionale, si è registrato il più alto tasso d’incidenza cumulativa tra le province italiane. Studi di popolazione che usino test molecolari o meglio ancora test sierologici sono senza dubbio utili per conoscere le dinamiche di diffusione di SARS-CoV-2, ma vanno limitati a precisi obiettivi e devono sottostare a rigorosi metodi di campionamento, come ad esempio nello studio italiano di sieroprevalenza condotto da ISTAT nel 2020.
 
L’uso indiscriminato dei tamponi ci fa capire come questo strumento squisitamente diagnostico sia stato utilizzato male, alimentando da un lato l’idea che servisse a limitare la contagiosità e dall’altro scatenando le peggiori paure correlate alla caccia quasi medievale all’untore. Oltre alla pandemia virale, infatti, è stata alimentata una pandemia psicologica di paura, grazie a due fenomeni concomitanti: uno costituito dall’infodemia, ossia da quella sorta di epidemia di notizie poco controllate, spesso contrastanti e con basso livello di scientificità (ovvero con scarso grado di verifica non solo delle fonti ma anche della consistenza statistica dei dati divulgati); l’altro costituito dalla sindemia, ossia dalla concomitanza tra epidemia virale e epidemia di malattie croniche che si aggravano a vicenda interagendo pesantemente con le condizioni ambientali e socio-economiche, senza contare le complicazioni a lungo termine della malattia note col termine long COVID.
 
C’è da osservare che quella della COVID-19 è stata la prima pandemia nell’era dei social, che hanno amplificato in modo distorto le informazioni già contraddittorie provenienti dalle osservazioni scientifiche che man mano affinavano il tiro, avendo bisogno di tempi incomprimibili per raccogliere dati di sufficiente solidità. Gli stessi epidemiologi, che in altri periodi storici avevano battagliato coi mezzi di stampa, in questo caso si sono trovati spiazzati di fronte a notizie di cui difficilmente era possibile ricostruire la fonte. E non hanno diffuso a sufficienza l’informazione che questa malattia, come in passato altre patologie sociali tra cui la tubercolosi, ha colpito le fasce più indifese e meno abbienti della popolazione, quelle meno in grado di tutelarsi dal rischio di sovraffollamento.
 
I buoni risultati, dunque, nel controllo dell’epidemia sono dipesi molto più dalla vaccinazione che dall’uso sconsiderato dei tamponi. La vaccinazione con un’alta copertura riduce la circolazione del virus e dunque il numero delle infezioni ma soprattutto il numero di malati gravi, mentre i tamponi possono essere un buono strumento ma solo in condizioni di bassa diffusione (endemia) perché le caratteristiche del virus (rapidità di contagio, diffusione tramite asintomatici, elevata frequenza, alto numero di operatori sanitari necessari al contact tracing etc.) non ne permettono un uso appropriato in fase epidemica.
 
L’uso estensivo e sconsiderato dei test molecolari e antigenici soddisfa esigenze che poco hanno a che vedere col controllo dell’epidemia: da un lato sedano, anche se temporaneamente e in modo illusorio, le ansie e le paure di essersi contagiati, dall’altro soggiacciono al dilagante consumismo e al diritto di acquistare un qualsiasi ritrovato tecnologico, in una logica di utilizzo dei servizi sanitari sempre più mercantile.
 
Come il progresso tecnologico sottrae spazio alle decisioni indipendenti dei consumatori, imponendo la diffusione dei suoi prodotti, così l’uso sempre più diffuso di tecnologie sanitarie sottrae spazio alle decisioni indipendenti dei medici, costretti tra le richieste insistenti dei pazienti e il sollievo medico-legale nel delegare il peso della diagnosi a test ed esami. Il risultato è una tendenza all’autonomia diagnostico-terapeutica (chi è miglior medico di se stesso?) senza che il comune cittadino sia in condizione di gestire le informazioni derivanti dai risultati degli esami eseguiti.
 
Cosa si possa fare oggi è sempre più difficile, avere fiducia in chi è più competente di noi e ammettere di non essere all’altezza di un certo livello di saperi è un atto di umiltà sempre meno frequente, in un mondo dominato da un immenso numero d’informazioni che crediamo di poter controllare ma che in genere sortisce l’effetto di disorientare i cittadini. A meno che non posseggano certezze assolute, come i No vax che - solo loro - conoscono esattamente come sono andate le cose in questa pandemia.
 
Salvatore Pisani
Epidemiologo
Centro Studi FISMU
10 gennaio 2022
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