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QS Edizioni - venerdì 19 aprile 2024

Lettere al Direttore

Il paradosso del decreto “Laurea Abilitante”

di Giulio Caridà
17 luglio - Gentile direttore,
abbiamo veramente bisogno di un esame di stato per l’iscrizione all’Ordine Professionale?

Per rispondere a questa domanda, è necessario ribadire che l’abilitazione professionale in Italia è ovviamente regolata da leggi specifiche, ma nessuna di queste prevede l’obbligo perentorio di sottoporsi ad un esame per l’iscrizione ad uno degli albi professionali. Ad esempio, il Corso di Laurea in Logopedia consente il conseguimento di un diploma di laurea realmente abilitante, per cui il solo possesso è requisito necessario e sufficiente per l’iscrizione al contestuale ordine professionale.
 
Ma perché allora esistono Ordini Professionali, come quello degli Avvocati oppure dei Commercialisti, che non solo necessitano di un esame per l’abilitazione alla professione, ma addirittura sono caratterizzati da test parecchio difficili e strutturati in svariate prove?

La risposta è molto semplice: i corsi di laurea in Giurisprudenza, Ingegneria, Economia ed altri consentono, in seguito al conseguimento del titolo, svariati sbocchi professionali. Ad esempio, aprendo la SUA-CdS (scheda unica annuale di un corso di laurea) di un qualsiasi CdS in Giurisprudenza, risulta che un laureato in Giurisprudenza possa ambire ad almeno le seguenti occupazioni: Avvocato, Notaio, Magistrato, Esperto legale nelle imprese ed Esperto Legale negli enti pubblici, e questi sono solo alcuni degli sbocchi.
 
È intuibile insomma che una laurea in Giurisprudenza non possa assolutamente essere abilitante, in quanto i possibili sbocchi professionali sono tanti, e stessa cosa si può dire anche per Economia o Ingegneria.

Il corso di laurea in Giurisprudenza assolutamente non insegna a tutelare un cliente, e inoltre non prevede ore di attività formative professionalizzanti che siano curriculari. Proprio per questo un laureato in giurisprudenza che voglia diventare avvocato deve sostenere prima due anni di praticantato e soltanto dopo potrà iscriversi all’esame di stato. Pensare di sostenere il praticantato durante il corso degli studi sarebbe inconcepibile, perché non è assolutamente scontato che il laureato in Giurisprudenza voglia successivamente intraprendere la carriera di avvocato.

Provando invece ad aprire la SUA-CdS di qualsiasi corso di studi in Medicina, l’unico sbocco professionale indicato, in tutti i casi, è sempre uno, ovvero Medico Generico (diverso da medico in medicina generale). Nell’ordinamento universitario italiano, ogni Corso di Studi in Medicina e Chirurgia si pone come unico obiettivo la preparazione di Medici Generici, per cui il laureato in Medicina può fare il medico generico e poco altro.
 
La differenza con Giurisprudenza inoltre non risiede soltanto nel differente numero di sbocchi professionali, ma anche nel fatto che, effettivamente, il CdS in Medicina insegna a prendersi cura del paziente, mentre il laureato in giurisprudenza non è assolutamente pronto per tutelare il suo cliente, avrà bisogno di due anni di praticantato.

Dunque qual è il senso di dover effettuare un test a crocette di abilitazione in seguito al conseguimento di un diploma di laurea che si pone come obiettivo un unico sbocco professionale? È stata proprio questa la domanda che da anni ha avviato l’iter di riforma della laurea in medicina, affinché si arrivasse alla laurea abilitante. Il grosso problema, però, è che partendo da questa premessa si è raggiunta la direzione esattamente opposta.

Ma c’è un’altra considerazione, ancora più importante, che probabilmente non è stata tenuta in debita considerazione: che cosa può veramente fare il medico generico?
 
Se partiamo da qui, possiamo considerare che sostanzialmente la laurea in medicina permette di fare poco e nulla. Pochissimi di noi ambiscono a lavorare in guardia medica, mentre la stragrande maggioranza dei laureati in medicina, dopo la laurea, si iscrive ai test per uno dei seguenti corsi post-laurea: test di specializzazione, test per MMG oppure dottorato di ricerca. Qual è il senso di un test più rigido per l’abilitazione alla professione di medico generico, se di fatto praticamente tutti si sottopongono a test ancora più difficili successivamente?

Una delle possibili considerazioni a questo ragionamento, mosse da chi sostiene invece il nuovo decreto, è che il nuovo test, probabilmente più difficile, avrebbe il compito di assicurare che il neomedico sia veramente preparato.
 
Il monitoraggio della preparazione degli studenti in medicina è effettivamente cosa fondamentale, per questo io sono un sostenitore del progress test: solo così ci si può rendere conto di eventuali lacune generalizzate e magari inveterate presso l’intera popolazione studentesca di medicina italiana.
 
Ma il ruolo del progress test dovrebbe limitarsi ad una esclusiva azione di monitoraggio. Devo dire che mi fa rabbia infatti pensare che esimi Prof.ri non si rendano conto che eventuali lacune non possano essere colmate solo sottoponendo gli studenti ad un test a crocette finale.
 
Mi auguro quindi che gli organi preposti, i più legittimati a prendere decisioni politiche, arrivino ad una nuova riflessione sull’argomento “laurea abilitante”, superando al più presto l’attuale decreto già pubblicato in gazzetta, al fine di rendere la laurea in medicina realmente abilitante.

Giulio Caridà
Laureando in Medicina e Chirurgia
Esperto Valutatore presso ANVUR, profilo Studente
17 luglio 2018
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